Vanity Fair (Italy)

ADORATO AZZEDINE

Era schivo, difficile, molto esigente. Ma anche generoso, gentile e divertente. Ora che è scomparso, una delle modelle e amiche di sempre ricorda il genio dello stilista ALAÏA

- Di AFEF JNIFEN

Avrò avuto diciannove o vent’anni ed ero in vacanza con i miei alle Bahamas: ai tempi vivevo ancora in Tunisia e di moda sapevo ben poco. Un giorno, in spiaggia, arrivò una troupe che scattava e filmava la pubblicità del Club Méditerran­ée. Un signore mi avvicinò e mi chiese se volevo fare anch’io da modella. Non avevo idea di chi fosse ma, dopo qualche esitazione, accettai di posare con addosso un body beige: il primo capo di Azzedine Alaïa della mia vita. Il signore era il regista e art director Jean-Paul Goude, una delle modelle presenti era Carla Bruni. Prima di ripartire dalle Bahamas, Goude mi disse: «Se passi da Parigi, vai da Azzedine». Ci andai, all’inizio lui neanche sapeva che ero tunisina come lui, pensava fossi messicana. Partecipai, tra l’altro, a una sfilata magnifica, a Bercy, in onore del fatto che aveva appena ricevuto un premio importante: ero l’unica sconosciut­a, in passerella c’erano Naomi Campbell, Grace Jones e molti altri pezzi grossi. Per un po’ di anni ci siamo persi di vista, io nel frattempo sono venuta a vivere in Italia. Ma poi ci siamo ritrovati, entrambi innamorati di Sidi Bou Said, il villaggio bianco e blu non lontano da Tunisi, entrambi desiderosi di riprendere contatto con la nostra terra. A lungo ho cercato di comprare la sua casa, ma lui non ha voluto («vieni quando vuoi, è tua quando ti serve, ma non te la vendo», mi diceva), finché a un certo punto se n’è liberata una lì accanto e siamo diventati vicini, tenendoci sempre in contatto, informando­ci l’un l’altro su come andavano le cose al villaggio, facendo piccole battaglie in loco per conservare la bellezza della natura e del luogo. «Chiama tu il sindaco, tu sei brava a farti ascoltare», mi diceva. Credo che lo divertisse molto trovare un piglio un po’ maschile in una donna femminile, adatta al suo immaginari­o di stilista. Era schivo, con un carattere difficile, molto esigente sul lavoro, sempre fiero e indipenden­te, anche come imprendito­re. Con gli amici e con quelli cui voleva bene era di una generosità disarmante. La sua casa a Parigi era sempre aperta, ogni giorno a pranzo e a cena arrivavano non so quante persone, non c’era bisogno di un invito ufficiale per essere ammessi in questa immensa cucina, la cuisine dove si cucinava, si mangiava, si parlava di lavoro, della vita, di tutto. Lui stesso preparava dei manicarett­i insieme al suo cuoco e tra un «e prova questo e prova quello» ti coccolava con sorrisi e sense of humour, all’insegna di quella tradizione dell’ospitalità araba che sa trasformar­e una cena qualsiasi in una serata indimentic­abile. Dopo mangiato, tanta musica e danza del ventre. Mi faceva cercare su YouTube immagini di ballerine di Tunisi di 60 anni fa di cui solo lui sapeva tutto, e io gli rispondevo: «Ma io non ero neanche nata!». Era un grandissim­o raconteur, potevi stare ore ad ascoltare aneddoti sulla sua infanzia o sui suoi primi tempi a Parigi. Ha avuto, credo, una vita molto felice, era un uomo che si sentiva realizzato e che amava ancora lavorare. L’estate scorsa, a casa mia in Tunisia, è venuto a una festa e si è molto divertito, eravamo rimasti d’accordo di vederci dopo il mese di ottobre, un periodo per lui pieno di impegni, per organizzar­ne presto un’altra, insieme. Sarei dovuta andare da lui a cena a Parigi proprio questo lunedì, per parlarne. Era vanitoso, non ha mai voluto che i giornali scrivesser­o la sua età, si divertiva a confondere le acque e le date. Io la so, so che gli 80 li aveva già compiuti, ma rispetto il suo desiderio, non dirò mai la cifra precisa.

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