Vanity Fair (Italy)

“NEGRA” COME L’AMERICA

C’era una volta Negroland, «regno» dell’alta borghesia nera degli anni ’50, dove è cresciuta la giornalist­a MARGO JEFFERSON, che qui racconta il razzismo negli Usa, oggi. E rivendica una parola scomoda

- Di CATERINA SOFFICI

ANegroland ci sono bambini ben educati, che frequentan­o ottime scuole e il pomeriggio vanno a lezione di pianoforte e danza. Ci sono feste con i palloncini colorati dove i piccoli non sanno che il mondo lì fuori può essere davvero brutto e cattivo con loro. Ci sono mariti di successo e mogli che prendono il tè con le amiche, giocano a bridge e vanno al club. Sono tutti «Negri». Dove è Negroland? Ovunque e in nessun luogo. È l’aristocraz­ia delle comunità di colore, quella piccola parte di popolazion­e americana che nell’800 si è affrancata dalla schiavitù negli Stati del Sud, si è trasferita al Nord, ha fatto soldi e fortuna, ha istruito i figli per mandarli nel mondo dei bianchi con gli stessi strumenti e simili privilegi. È per esempio la Chicago del secondo dopoguerra, come la racconta Margo Jefferson in Negroland (pagg. 270, € 16, trad. Sara Antonelli, 66thand2nd editore). Jefferson ha 70 anni, ha scritto di spettacoli, libri, moda. Insegna alla Columbia University. Nel 1995 ha vinto il premio Pulitzer per la critica. Ora parla via WhatsApp dal suo appartamen­to di Manhattan con una voce squillante e l’entusiasmo di una trentenne. Zero figli. «Sono venuta a New York alla fine degli anni ’60. C’era il femminismo, la vita era piena di opportunit­à, amori, carriera. Potevo scegliere e questo era fantastico, per me. Volevo essere una donna single e vivere in una grande città». Partiamo dalla cosa più scioccante del libro: lei usa la parola «Negro», con la N maiuscola. Il volume è uscito nel 2015 in America, prima dell’elezione di Trump. La userebbe ancora? «Io uso “Negro” per segnalare al lettore che stiamo parlando di un particolar­e periodo storico e di una certa comunità». Oggi però ha un significat­o offensivo, no? «Dipende. È interessan­te vedere la quantità di nomi che gli afroameric­ani – così ci chiamiamo oggi – hanno usato per definire se stessi nel corso del secolo. Perché questo riflette la nostra necessità di trovare una identità. Prima di “Negri” c’era “Colorati” e poi è venuto “Neri” e quindi “Afroameric­ani”. I bianchi, sempre e solo “Bianchi”». Lei riporta una lettera dove sua madre scrive a un’amica: «Sono così felice… A volte mi dimentico addirittur­a che sono Negra». «Quando ho trovato questa lettera mia madre era ancora viva e l’abbiamo letta insieme ad alta voce di fronte a mia sorella, sedute in cucina. Noi figlie ci siamo guardate esterrefat­te. In queste semplici parole c’è tutto: significa che la tua vita è una continua negoziazio­ne con il fatto che come persona di colore il tuo diritto di cittadinan­za, addirittur­a il tuo diritto a vivere un’esistenza normale, è messo alla prova costanteme­nte. Mia madre diceva: noi siamo alta borghesia Negra, ma siamo classe media americana». Uno scalino sotto, quindi? «Sì, perché non avevamo accesso a tutto quello che era permesso ai bianchi». Oggi è meglio o peggio di allora? «C’è meno pressione. Un giovane di colore non deve fare tutto in modo perfetto, per provare che anche lui ce la può fare». Lei è un premio Pulitzer. Lei ce l’ha fatta. «Sì, ma non mi definisco mai sempliceme­nte un’americana. Rimango sempre “una donna americana di colore”». Bionda però. «“Una donna di colore con i capelli colorati di biondo”. Sono una intellettu­ale. Sono una scrittrice. Ho avuto successo. Sono il tipico prodotto di quello che volevano i nostri genitori a Negroland. Hanno prodotto dei figli che dovevano andare avanti. Volevano più opportunit­à, più diritti e più privilegi; per tutta la gente di colore». Quando Obama è diventato presidente non avete pensato che fosse la fine delle discrimina­zioni razziali? «Lui e Michelle erano la generazion­e giovane dei Negrolande­r. Le posso garantire che né io né alcuna altra persona di colore

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