Vanity Fair (Italy)

È UN AMORE SENZA AFFANNI»

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condizione, ho visto quel nero lì». Che cos’altro ha visto? «Ho capito come si è sentita mia madre dopo la morte di papà (nel 2013, ndr). Ai tempi avevo fretta di “educarla” a vivere da sola, le dicevo “ma che problema c’è?”, volevo spronarla a reagire. Non avevo capito niente. Mi sento in colpa». E di cantare da solo ha mai pensato? «Mai. A Los Angeles, poco tempo fa, un produttore mi ha detto: “Si sente che tu sei un cantautore travestito da band, quando arriva il disco solista?”. Io gli ho risposto che quando a otto anni facevo finta di suonare con una racchetta Rattle and Hum e immaginavo di essere Bono, sul muro disegnavo le sagome degli altri U2. Quindi no, non mi interessa fare il solista. Ci possono essere, e ci sono già, dei side project. Ora, per esempio, mi piacerebbe fare un percorso di world music (musica etnica, ndr), senza tempo. Ma per me la musica è condivisio­ne». Le canzoni però le scrive tutte lei. «Vero, ma poi le arrangiamo e le cambiamo tutti insieme. Da solo non avrei realizzato quello che abbiamo fatto come band. Io sono un sesto. Se suono è perché volevo viaggiare con gli amici, mi immaginavo il furgone. E quel sogno me lo ricordo bene. Poi, certo ho cominciato con la musica per sembrare bello agli occhi delle bambine...». Ci è riuscito? «No, non mi sono mai sentito bello. Ma ho una grande fortuna: so che è così e che non cambierò mai idea!» (ride). Nella canzone Pezzi di te canta: «Lo spazio vuoto è pieno della tua mancanza». Di chi parla? «Non volevo dirlo, perché non voglio più ritornare su questa cosa. Ma è l’ultima canzone che ho scritto per mio padre. Dopo la sua morte, per antitesi ho provato una grande voglia di vivere. Poi le cose sono cambiate e oggi voglio salutare quel ricordo così». Ha fatto pace con l’idea che lui non c’è più? «Mi capita un’altra cosa. Provo dolore, vergogna e rabbia contro me stesso perché lui non mi manca più e a volte è come se non ci fosse mai stato. Bisognereb­be dirlo: ci si abitua al dolore. Mi succede di arrabbiarm­i per sentirlo ancora vivo, mi sento in colpa perché non piango». Fa parte dell’elaborazio­ne del lutto? «Forse sì. È come prendere un antibiotic­o per andare avanti, dopo aver assaggiato una pillola di morte». Qual è la più grande lezione di suo padre? «Quello che sono. Se faccio il musicista è perché lui un giorno fece marcia indietro per andare a comprarmi una chitarra: mi aveva capito, aveva visto tutto». A un figlio suo pensa mai? «Ilaria e io ne parliamo da un po’. Ma il dubbio è: io mi dico che lo voglio ma lo sento davvero questo desiderio o potrei vivere tutta la vita così? Non lo so. So solo che siamo pronti». Che vuol dire che siete pronti? «Siamo perfetti, siamo l’amore che non ha affanni. Ha presente quell’ansia che ti fanno sentire certe persone a cui devi dimostrare ogni momento che le ami? Ecco, noi siamo l’opposto. Possiamo stare giorni a scrivere in casa senza incontrarc­i. Se nascesse un bambino in una coppia così libera e serena, sarebbe fantastico». La vita della star della musica si concilia con quella della famiglia? «Io non mi sento una star». Lo è, però. «Ho un grosso problema di autostima. Se faccio un concerto a San Siro, il giorno dopo è come se non lo avessi mai fatto. Da un lato questo mi permette di ripartire sempre da zero, dall’altro c’è sempre qualcuno che mi prende a schiaffi: “Oh ma hai capito? Hai capito?”. Ma no, non ho capito, perché per me conta solo la musica». La fama non l’ha cambiata? «Se mi chiedi di fare l’aperitivo io ci sono, se mi fermi per strada mi metto a parlare, non sono uno che se la tira. Faccio vita di quartiere al rione Monti, a Roma, vado al supermerca­to, non me ne frega niente della fama». Ma è davvero tutto uguale a quando non era famoso? «Una cosa c’è. Ultimament­e esco di meno, perché ho capito che ci sono alcuni momenti in cui non riesco a dare niente agli altri e se mi sforzo – visto che non rifiuto mai di fare una foto o due chiacchier­e – torno a casa distrutto. Oggi mi piace molto la casa, ma è sempre un punto di ritrovo per gli amici». Chi sono i suoi amici nella musica? «Federico Zampaglion­e. E poi Niccolò Fabi. Con lui ho pronta nel cassetto una canzone stupenda, quando ne avremo voglia la faremo uscire». Le piacciono i duetti? «Quando nascono da un’amicizia, da un rapporto vero, sì. Ma pensi che oggi mi è arrivata una mail con una richiesta di un featuring: un messaggio freddo, quasi commercial­e. Mi veniva voglia di rispondere male, io manco vi conosco! Non è normale che ci si rivolga così tra artisti». Lei frequenta tanti musicisti? «È normale, ti circondi di gente che ti capisce. C’è stata un’estate magica in cui andavamo tutte le sere al Contestacc­io, il locale di Testaccio. Era il 2008, mi ero appena trasferito a Roma. Ho portato lì i Sud Sound System, Gianna Nannini che ha spaccato le chitarre... Una notte arrivarono i Metallica». Racconti. «Noi eravamo dentro, ma il locale era già chiuso. Bussa alla porta un omino: “C’ho li Metallica in maghina”. Lele, il proprietar­io, gli risponde: “Se tu c’hai li Metallica in maghina, io c’ho l’Uomo Ragno ner cofano”. Poi arriva un amico che li riconosce e li fa entrare. Loro si mettono in un angolo da soli e snobbano tutti. Finché vedono che in tv va il dvd del nostro concerto a San Siro, si informano, capiscono che siamo famosi e ci invitano al tavolo. Alle sei del mattino mi dicono che devono andare via: dovevano andare alla messa di San Pietro. Ah, le rockstar!». In tutto il servizio: styling Edoardo Caniglia. Grooming Jo Sanna. Ha collaborat­o Lavinia Biancalani @TheStylePu­sher.

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