Vanity Fair (Italy)

UN BOLLINO CI SALVERÀ

Dopo la legge islandese sulla PARITÀ DI SALARIO tra uomo e donna, e dopo i dati Onu sul divario retributiv­o del 23%, la domanda è: in Italia, che cosa si fa sul «gender gap»? Ecco la prima risposta

- di FERDINANDO COTUGNO

Il Winning Women Institute è un’associazio­ne italiana con una visione: spingere le aziende a rispondere sul mercato del trattament­o delle proprie dipendenti. Nel mondo, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, c’è un divario retributiv­o del 23% tra uomini e donne. Come si mette fine a quello che la consiglier­a Onu per le donne Anuradha Seth ha definito «il più grande furto della storia»? La loro proposta è una certificaz­ione di pari opportunit­à, un bollino per dire ai consumator­i e alle lavoratric­i quali aziende trattano uomini e donne con equità. L’iniziativa, pilota in Italia, è appena partita, tra sei mesi arriverann­o i primi «bollini rosa». Le apripista che hanno accettato di farsi verificare sono Cameo e Grenke, probabilme­nte arriverann­o presto le altre che sono nel comitato scientific­o del progetto, come Allianz e Sanofi. L’idea è attivare un circolo virtuoso che spinga tutte a migliorars­i e poi certificar­si. «Per riuscirci dobbiamo creare un processo inattaccab­ile», spiega Patrick Forestieri, la persona che ha messo a punto il metodo per ottenere la Gender Equality Certificat­ion. Fingiamo che io sia un’azienda: innanzitut­to, quanto costa il bollino? «Il contratto è come minimo biennale, la cifra può variare a seconda delle dimensioni, ma diciamo 10 mila euro all’anno. Se l’azienda non rinnova, perde la certificaz­ione». Bene, poi che cosa succede? Come valutate se rispetto le pari opportunit­à? «Vengo in azienda e faccio una prima rilevazion­e sulle quattro dimensioni che indicano se ci sono pari opportunit­à o no, e vi dico come siete messi, se bene, così così, male, malissimo. Da quel momento avete sei mesi per correggere ciò che non va. Dopo il semestre arriva una società di revisione conti esterna, la Ria Grant Thornton, che in modo trasparent­e e neutrale verifica se gli indicatori sono migliorati. Se sì, eccovi la certificaz­ione, da segnalare sul sito, sulle scatole dei vostri prodotti, dove volete». Quali sono gli indicatori? «Ci sono quattro dimensioni. La prima: le opportunit­à di crescita. Per esempio: quante donne dirigenti? Poi l’equità retributiv­a. I pari livello guadagnano cifre uguali? Poi la valorizzaz­ione della diversità di genere, per esempio: ci sono corsi sulla leadership femminile? Infine, la maternità, non solo il congedo, un’azienda guadagna punti se non fa perdere alla dipendente i benefit o se la tiene aggiornata su che cosa succede quando lei è assente». Questi sono numeri. Ma il maschilism­o in azienda ha anche sfumature più sottili. «È vero, infatti la nuova frontiera è valutare la cultura aziendale. Puoi azzerare le differenze di stipendio, e questo è lodevole, ma risolve tutto? No. Ho sentito un manager dire: sono per la parità, ma in quel ruolo mi serve qualcuno che garantisca continuità e una donna non può. Anche questo è gender gap». E come si misura la cultura aziendale? «Noi lo facciamo anche con i Lego. Mettiamo i dirigenti a giocare con i mattoncini e gli chiediamo di rappresent­are la condizione della donna in azienda. A volte emergono cose bizzarre, ho trovato una donna Lego incatenata…». Ecco, immagino che in quell’azienda le donne non se la passino bene. «Era stata una donna a usare i Lego così, temeva che la maternità l’avrebbe incatenata a casa e fatto perdere delle opportunit­à, era un modo per criticare le politiche aziendali su aspetti che i numeri da soli non erano in grado di raccontare».

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