NEL SUO PASSATO
LA SECONDA VITA DI AMANDA, IMPRIGIONATA PER SEMPRE
Amanda Knox, assolta per l’omicidio di Meredith Kercher avvenuto a Perugia dieci anni e tre mesi fa, tornata a vivere a Seattle dove ha scritto un libro sulla sua storia, ora ha iniziato un ciclo di conferenze nei college dove racconta la sua esperienza: il caso giudiziario, l’accanimento dei media, il modo in cui la sua vita è cambiata. La Knox, che ai tempi dell’omicidio aveva vent’anni, ne ha passati quattro in carcere, con parecchie vicissitudini, e cose interessanti da raccontare dovrebbe averne. È opportuno che lo faccia? Dalla sua storia sono stati tratti film, docufiction, libri, spettacoli teatrali. E ora le conferenze. Nella prima ha detto: «Tutto quello che è stato scritto su di me non importa. L’unica cosa che conta è la verità: se ho imparato qualcosa da questa esperienza è che la verità non si può nascondere ignorando la realtà».
Oggi Amanda Knox si presenta sul suo sito e sui social come «scrittrice e attivista per i diritti» e ha dichiarato che quel che le interessa è occuparsi di chi viene condannato ingiustamente. Non è mai parsa una simpaticona né una persona di particolare acume o calore, e sicuramente ha commesso un reato: nella prima fase del suo arresto ha accusato una persona innocente, il barista Lumumba, cosa per cui è stata condannata. Ma per l’omicidio della povera Meredith è stata definitivamente assolta, e questo significa che ha trascorso ingiustamente quattro anni in carcere, oltre a tutto il resto, che naturalmente è poco in confronto a quello che è successo a Meredith e alla sua famiglia, ma questi paragoni hanno un senso?
Il legale della famiglia della vittima ha detto di trovare molto inopportuna l’iniziativa della Knox e diversi media che non vanno troppo per il sottile hanno titolato la notizia delle conferenze pagate novemila euro l’una: «Amanda vende la morte di Meredith».
Magari se Amanda Knox smettesse di fare l’Amanda Knox del delitto di Perugia sarebbe meglio anche per lei, ma evidentemente non può e non vuole. Forse, se a vent’anni, da due mesi in un Paese straniero di cui non parli la lingua, lontanissimo da casa tua, ti succede di essere accusato dell’omicidio di una tua amica, ti arrestano, ti trattano come un colpevole da far confessare, passi quattro anni in prigione e vieni descritto dai media come una persona viziosa e diabolica, non c’è troppo da stupirsi se fai fatica a voltar pagina. Siamo quello che ci succede. Capisco che la famiglia di Meredith ci rimanga male. Hanno ragione. Ma credo che anche un innocente accusato di un crimine che non ha commesso abbia molte ragioni per cercare di condividere la sua esperienza: per superarla, ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema di cui ha sperimentato la gravità. E ricordiamo che se tutti i poco empatici dovessero marcire in galera, per usare un’espressione cara ai forcaioli, le carceri scoppierebbero molto più di quanto non facciano già e ci sarebbe una deflagrazione tanto gigantesca che il fungo si vedrebbe dalla Luna.