Vanity Fair (Italy)

Mi si è alzata la pressione

Da ragazzo faceva risse e sfidava i limiti. Poi, JOEL KINNAMAN si è «messo in riga», ha sostituito la rabbia con la recitazion­e. Così, adesso è diventato protagonis­ta di una serie tv che sarà paragonata a Blade Runner. Una parte complessa e faticosa. Ed è

- di MARGHERITA CORSI foto JASON BELL

Joel Kinnaman ha fama di essere il nuovo sex symbol svedese più richiesto di Hollywood, ma questo non gli ha tolto la verve, ben testimonia­ta dagli aneddoti che regala durante le interviste. Come quello sulle nozze con Cleo Wattenströ­m, la tatuatrice belga che ha sposato nel 2016 a Los Angeles. «L’abbiamo deciso su due piedi. L’ho portata in un posto chiamato Same Day Marriage, su San Vicente Boulevard. Dentro c’era una piccola signora russa. Ci ha chiesto: “Volete sposarvi? Sono 25 dollari. Veloci, entrate”», racconta imitando l’accento russo. «Dopo un po’, è apparsa questa creatura identica a Dracula. Era senza sopraccigl­ia e aveva due V rovesciate dipinte sopra gli occhi. Ci ha spedito in una cappella che sembrava una stanza delle torture e ha chiesto a entrambi: “E così volete sposarvi. Vale per tutta la vita, lo sapete?”. Abbiamo risposto: “Sì”. E lei: “Sposati!”». Fa il modesto («davvero mia moglie non è l’unica a pensare che faccio ridere?»), ma lo humour è la qualità che ha fatto amare anche il detective Stephen Holden di The Killing, personaggi­o che lo ha lanciato negli Stati Uniti. Giusto il tempo di finire la serie, nel 2014, e ha ottenuto la parte del protagonis­ta nel remake di RoboCop e poi del candidato repubblica­no William Conway, il rivale di Frank Underwood in House of Cards. Provo a chiedergli cosa ne pensa dello scandalo che ha travolto Kevin Spacey e del suo licenziame­nto, ma è l’unico momento dell’intervista in cui cala il silenzio. Finché la sua publicist mi avvisa: «Cambiamo argomento». Il prossimo ruolo di Kinnaman, 38 anni, è quello del soldato Takeshi Kovacs in Altered Carbon (su Netflix dal 2 febbraio), serie tratta dal romanzo cyberpunk di Richard K. Morgan, ambientata in un futuro dove la morte è stata sconfitta trasferend­o la coscienza da un corpo all’altro. Un progetto ambizioso. «È la risposta di Netflix al Trono di spade. Non avevano mai creato un mondo intero con gli effetti speciali, verrà paragonata a Blade Runner. Amo questo genere di saghe distopiche, ci insegnano dove ci porteranno le decisioni che prendiamo oggi». È il suo primo ruolo da protagonis­ta in una serie americana. Ansia da prestazion­e? «Non la vivo mai così, la pressione mi motiva, mi eccita. Sono sicuro che farò un buon lavoro, quindi non mi sento in difficoltà, anzi, mi impegno di più. In questo caso avevo bisogno di una spinta, è stato il ruolo più difficile che abbia mai avuto». Perché? «Pensi solo alla preparazio­ne fisica. Mi sono allenato cinque ore al giorno per sei mesi, anche di notte. E ho imparato diverse arti marziali, il jujutsu è la mia nuova ossessione». Lei è alto un metro e 89. Holden era mingherlin­o, Takeshi una montagna di muscoli. Come si sente nel suo corpo? «Cambiare corpo mi dà

sensazioni diverse, mi piace. Questo fisico mi fa sentire forte e in forma come non mai, ma allo stesso tempo mi ricorda emozioni negative, come la rabbia». È un tipo irascibile? «Da adolescent­e non riuscivo a gestirla. Facevo risse e sfidavo i limiti, volevo fare sempre quello che non era permesso. Ero insicuro e, per provare a me stesso che ero forte, litigavo con gli altri. Giravo con ragazzi che avevano le mie stesse insicurezz­e, alcuni avevano rapinato banche, altri spacciavan­o droga. Per mettermi in riga, i miei genitori mi hanno mandato un anno in Texas come ragazzo alla pari». Com’è passato dalle cattive compagnie alla recitazion­e? «Ho sempre voluto fare l’attore. Ho avuto il mio primo ingaggio in tv a 10 anni grazie a mia sorella, che fa l’attrice, ma non ho più recitato fino ai 21. Poi mi sono iscritto alla scuola di teatro e un giorno ho fatto un monologo in cui il mio personaggi­o diceva al padre tutto quello per cui era arrabbiato. Le emozioni sono uscite come un fiume e ho smesso di seguire il copione. Alla fine l’insegnante mi ha detto: “Sarà dura, ma se lo vuoi davvero, puoi fare questo lavoro”». Lei che rapporto ha con suo padre? «Gli voglio un gran bene. Mi ha ispirato a essere coraggioso e responsabi­le. È americano, ha disertato la guerra in Vietnam ed è scappato in Laos per cinque anni. Poi è venuto in Svezia, dove ha conosciuto mia madre. È andato contro tutti per non partecipar­e a una guerra in cui non credeva». Ho visto su Instagram che ha portato i suoi sul set. «Io vivo a Los Angeles, loro a Stoccolma: stare lontani mi pesa, soprattutt­o ora che stanno invecchian­do, faccio il possibile per passare del tempo assieme. Lo scorso Natale ho portato tutta la famiglia a Cape Town, erano ventidue». Ma quanti siete, scusi? «Non siamo mai stati una famiglia tradiziona­le. Ho cinque sorelle, non tutte biologiche. Siamo cresciuti insieme e sono molto legato ai miei cugini e alle mie nipoti. La vigilia di Natale a casa dei miei eravamo ventotto». Com’è stato crescere con cinque sorelle? «Dicono che ero una peste. Mi hanno viziato, ma anche insegnato a sentirmi a mio agio con le donne forti. In Svezia c’è una grande cultura di uguaglianz­a fra uomini e donne». È un tema molto sentito a Hollywood, dopo Weinstein. Lei che cosa ne pensa? «Che era ora. Sapevo quello che succedeva, ma è pazzesco sentire cosa sono arrivate ad accettare in silenzio le donne. È un problema struttural­e. Il primo passo è portarlo allo scoperto, il secondo è far pagare i responsabi­li. È spaventoso che le persone usino il loro potere per infliggere violenza emotiva e fisica sugli altri, vanno fermate». TEMPO DI LETTURA PREVISTO: 7 MINUTI

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