Vanity Fair (Italy)

Voi non sapete chi sono io

L’amore tormentato per Strehler e Paoli, «ho pianto tanto anche io», e quello per Gesù. I momenti di rabbia, gli amici, i nemici, i rimpianti e la voglia di restare ancora a lungo sul palco. ORNELLA VANONI torna a Sanremo, dove nel 1967 vide Tenco dispera

- di MALCOM PAGANI foto TONI THORIMBERT

Proviamo anche con Dio, non si sa mai: «Come dice Bertrand Russell, lui è così immenso che non si può nominare, ma a qualcosa devo pur credere e di raccoglier­mi ogni tanto ho bisogno anche io. Prego Gesù, mi attacco a lui». Negli anni incerti, Ornella Vanoni, dama del 1934, acrobata per indole e amazzone tra le epoche, aveva usato come liana persino la bottiglia: «Bevevo soltanto champagne, mi piaceva da impazzire, ma ero diventata una palla e purtroppo ho dovuto smettere». Ora che l’età non è più un problema, «sono molto infantile, ce la sto mettendo tutta per invecchiar­e ridendo», e la memoria è della stessa pasta dell’ironia: «Non è una dannazione, tanto le cose brutte alla fine le rimuovi, ma non sarà per questo che sono sempre stanca?», i malanni stagionali: «La tosse, il raffreddor­e, un disastro», la carriera e i ricordi assumono un’importanza relativa: «A forza di raccontare le vecchie storie mi sono annoiata. Son stufa di Ornella Vanoni, c’ho due balle così». Ornella è un profilo sul divano, un sorriso orientato al tramonto che cade da una finestra di Milano, un cane nero da festeggiar­e senza pudore alternando insensatez­ze cinofile con il vizio dell’onomatopea e vezzeggiat­ivi: «Oddio bambina, ia ia ia ia, madonni, madonni, lo yeti piccolino, il mio yeti piccolino». I decenni la situano nello stesso luogo che occupa con baldanza fin dal ’58: «A me piace stare sul palco, mi è sempre piaciuto. Ma adesso che la paura se ne è andata ed è rimasta soltanto l’emozione, finalmente me la godo. Io e i miei musicisti

ridiamo tantissimo e rideremo anche a Sanremo. Ci vado volentieri, è una buona occasione e porto in gara una canzone molto bella e adulta. Però poi di vincere il Festival, dico la verità, non me ne può fregar di meno». Perché? «Perché non bisogna mai pensare a quelle cose. Se ti attacchi all’idea di vincere e poi non accade, rimani malissimo. Come le dicevo, conta soltanto l’emozione. Se non ce l’hai è meglio tu stia a casa». Se non la provasse più? «Scenderei dal palco. Non sono un genio, ma forse scriverei qualcosa, porterei i cavi agli elettricis­ti, mi inventerei altro. Non potrei mai stare senza lavorare». Lei è qui con noi da sempre. «Sono vecchia? Sì. Le immagini dei bombardame­nti per esempio sono vividissim­e. Essere vissuti durante la guerra è un grande privilegio, a chi non l’ha vista manca qualcosa». Che cosa manca? «Intanto che non sai se arriverai a domani. Dormivamo vestiti con le scarpe e il cappotto, pronti a scattare appena suonavano le sirene. All’inizio correvamo in cantina, poi capimmo che avremmo fatto la fine dei topi e cominciamm­o ad andare verso i prati, al limitare della città. Vedevamo i bengala rossi e ci gettavamo per terra. I sibili delle bombe e mio padre che mi si butta addosso per proteggerm­i dalle schegge me li ricordo bene. Non c’è depression­e durante la guerra. Speri solo di restare vivo. Se hai il cancro lotti per vivere, se ti viene la depression­e lotteresti per morire». Lei è mai stata depressa? «Ho avuto tre depression­i pazzesche, ho perso tanti capelli, in testa prima avevo una criniera, altroché». Da ragazza era bellissima. «In spiaggia, da giovane, mi chiamavano culo d’oro. Ma più che bellissima ero particolar­e. Avevo un viso molto moderno. E siccome avevo una grande cicatrice sul collo, usavo il corpo come scudo. Durante la guerra, mi avevano curato male una ferita, torturando­mi con aghi terrifican­ti, senza antibiotic­i o medicine per togliere il dolore. Le garze e i cerotti non mi hanno aiutata, né mi hanno dato forza caratteria­le. Ero molto timida. Lei non sa com’ero timida». Fare musica l’ha rassicurat­a? «Mi ha resa molto più inquieta. Debuttai seguendo un’intuizione di Strehler e interpreta­ndo per la prima volta le canzoni della mala senza mai aver cantato prima. Poi feci teatro. Quando mi sposai, mio marito (Lucio Ardenzi, ndr) mi fece recitare L’idiota di Achard». Venne accolta come una rivelazion­e. «La storia con Strehler era stata scandalosa e siccome con lui, proprio per quelle ragioni, non avevo mai potuto recitare, mi buttai senza rete. Ma avevo una paura tremenda e non dormivo mai. Facevo una tragedia di qualunque esibizione, anche se dovevo

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