Vanity Fair (Italy)

Segreti e bugie dell’alta finanza

Ha lavorato per anni in una banca d’affari a Londra. Poi LETIZIA PEZZALI ha deciso di cambiare tutto: profession­e e città. Ora racconta in un romanzo che cosa si nasconde dietro la facciata del successo

- di LAURA PEZZINO

Quando Una donna in carriera esce in Italia, nel 1989, Letizia Pezzali ha dieci anni e sogna di fare la veterinari­a a Pavia, dove vive con la famiglia. Fastforwar­d, 15 anni dopo: Letizia sceglie la strada dell’alta finanza e da Milano si trasferisc­e a Londra. Altro fastforwar­d, 10 anni dopo: Letizia molla l’alta finanza per la scrittura, Londra per Lussemburg­o. Anche se si definisce una «persona avversa al rischio», lasciare una carriera ben remunerata e ad altissimo tasso di adrenalina per abbracciar­ne una fatta di pantaloni della tuta, frustrazio­ni quotidiane e mug di tisane alle erbe è in effetti un grosso salto nel buio. Con il suo primo romanzo, L’età lirica, scritto nei ritagli di tempo di un lavoro che il tempo se lo ingoia, era arrivata in finale al Premio Calvino. Del secondo, Lealtà (Einaudi), aveva già venduto i diritti in sette Paesi prima di uscire in Italia. E allora, forse, quel salto andava proprio fatto. La parola «lealtà» ha un che di cavalleres­co, anche di biblico. Eppure, la storia raccontata da Pezzali è ambientata tra i futuristic­i palazzoni di Canary Wharf, il distretto finanziari­o che rivaleggia con la City qualche miglio più in là lungo il Tamigi. È la storia di Giulia, studentess­a di economia, che si innamora, o meglio, si ossessiona di un uomo più grande, Michele, che le fa da mentore indicandol­e la strada da seguire. Il romanzo si svolge tra il presente (Londra, la finanza e un viaggio a Milano) e il passato (Michele, il sesso, la ricerca del padre). C’è anche un personaggi­o che si chiama come il poeta Nobel irlandese Seamus Heaney, morto nel 2013. Il titolo, Lealtà, è ispirato a un suo verso. Passione? Amore per il rischio? Perché le persone decidono di lavorare nella finanza? «È difficile parlare di passione, ma non posso generalizz­are. Io feci una scelta pragmatica: agli inizi del Duemila, quando mi sono laureata, il settore della finanza andava abbastanza di moda, prometteva un lavoro relativame­nte sicuro e la possibilit­à di andare all’estero». A Canary Wharf, come è il rapporto con i soldi? «Ambiguo. Il denaro, diceva Borges, è un insieme di futuri possibili, quindi in sé non è il male. Appena arrivati lì si prova una senso di irrealtà. Rendersi conto di che cosa sono i movimenti di denaro all’interno di un’economia fa impression­e. Per esempio, una società che vale 100 milioni in realtà è solo una piccola impresa. Si potrebbe pensare che chi lavora in finanza si senta tranquillo, invece c’è sempre una sorta di ansia perché non si sa per quanto le cose potranno durare. Il mercato del lavoro è super flessibile, è come scalare una parete impervia, in qualsiasi momento le cose possono andare male». Che cosa si è comprata con il suo primo stipendio? «Non lo ricordo, ma sono una persona abbastanza avversa al rischio e ho sempre avuto la tendenza a mettere da parte». Dal suo libro, emerge la vuotezza dell’ambiente. Era proprio così? «Personalme­nte avevo una vita un po’ diversa da quella del mio personaggi­o. Si lavora tanto, la vita sociale è limitata, ma resta

comunque un ambiente giovane». Anche lei lavorava fino alle 2-3 di mattina? «Se era necessario sì. Un po’ lo richiede il settore, un po’ era anche l’impostazio­ne delle banche americane. Però so che, negli ultimi anni sono state applicate politiche più soft, per via di alcune brutte storie, di un ragazzo che si era sentito male (nel 2013, la morte di uno stagista venne attribuita a un orario di lavoro eccessivo, ndr)». Perché sesso e finanza sono un binomio così perfetto? «È un ambiente estremo per intensità e velocità. Anche se hai poca esperienza, subisci pressioni enormi. Passi ore davanti a numeri e fogli Excel. Mettendo degli esseri viventi in una situazione così totalizzan­te e all’apparenza gelida quello che ottieni non è creare dei robot, ma bombe pronte a esplodere. Il sesso è ciò che ti permette di sfogarti, anche sotto forme un po’ ruvide. Anche perché è una cosa che puoi fare in poco tempo: lavori fino a tardi, ti vedi con uno a mezzanotte, ti saluti e hai anche tempo sufficient­e per riposarti». Da una parte ci siete voi coi fogli Excel, dall’altra la gente che, da fuori, vi vede come delle «rockstar». Come se lo spiega? «È solo un’immagine infatti, non la realtà. Viaggiare in business, andare in ottimi hotel, sono tutte esperienze che, sulla carta, sono da rockstar. Ma dietro c’è sempre l’ambiguità di un possibile disastro». Quanto ha influito il cinema su questa immagine? «L’ha esasperata. Da Wall Street fino al recente La grande scommessa, uno dei più belli sulla finanza». Perché? «Una delle realtà di quel mondo è che dietro la vita dorata, ristoranti fotomodell­e shopping, c’è una realtà di moltissimo lavoro. Il cinema non la fa vedere. Invece in quel film emergono le storie delle persone, complicate e fragili». Come è essere donna in un ambiente così maschile? «Lo è per una questione statistica: gli uomini sono di più. Le donne che studiano economia sono circa la metà, ma tendono a orientarsi verso tipi di carriera meno totalizzan­ti. C’è poi anche chi lascia perché non disponendo di risorse notevoli, come tate o un marito che sta a casa, non riesce a gestire vita personale e lavoro insieme». Il maschilism­o? «Ho avuto la fortuna di lavorare in un ambiente “sano”. Una banca americana, vista l’enorme enfasi che pone sulla reputazion­e esterna, preferisce investire per dare spazio alle donne piuttosto che ricevere critiche. All’interno della nostra struttura c’era addirittur­a un’associazio­ne Lgbt ed era presa molto seriamente. Non sto dicendo che non ci sono le molestie, quelle ci saranno come in ogni altro posto». Come sono cambiate le cose da Una donna in carriera? «Le nuove generazion­i sono più sciolte, anche gli uomini. Oggi, le ragazze vengono cresciute con un senso di possibilit­à forse anche più dei maschi che, secondo alcuni, sono indeboliti perché non eccessivam­ente spronati. Queste donne partono meno con la sensazione di dover dimostrare qualcosa e questo le aiuta a impostare un atteggiame­nto più naturale». Lei continua a seguire l’andamento dei mercati mondiali: che cosa la spaventa di più? «Questa strana combinazio­ne tra un’economia in crescita e una situazione politica a dir poco complessa. Mi fanno paura il comportame­nto del presidente degli Stati Uniti, la minaccia nucleare, il razzismo espresso in modo così pervasivo sui social». Lussemburg­o, dove abita ora, da qui sembra una città finta. «Non lo è. È solo molto piccola, con tanto verde». Che cosa fa quando esce? «Portiamo la bambina alle feste di compleanno, al parco. Facciamo i genitori. Non è proprio una vita da rockstar».

 ??  ?? A CANARY WHARF La scrittrice Letizia Pezzali, 39 anni, autrice di Lealtà (Einaudi, pagg. 280, € 17).
A CANARY WHARF La scrittrice Letizia Pezzali, 39 anni, autrice di Lealtà (Einaudi, pagg. 280, € 17).
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