Vanity Fair (Italy)

SANREMO È SANREMO

- di SILVIA NUCINI foto SVEN BÄNZIGER

Fino a ieri il Festival lo vedeva con gli amici scambiando­si bigliettin­i e pronostici. Tra pochi giorni invece lo condurrà con lo stupore di chi non se lo sarebbe mai aspettato. Ma PIERFRANCE­SCO FAVINO ha attraversa­to tutta la propria carriera con la sorpresa di chi: «Non ho paura di sbagliare e neanche di fallire». Anche quando interpreta un uomo irrisolto «che non vuole scontentar­e nessuno», come nel nuovo film di Gabriele Muccino, una commedia amara in cui si immedesime­ranno in molti

Nel foyer del teatro è tutto un bisbigliar­e di voci femminili, un lampeggiar­e di sguardi accesi. «Bravissimo, lo seguo da sempre, non come voi, qua, che l’avete scoperto solo perché va al Festival». «See, arriva lei, l’esperta...». La notte poco prima delle foreste non è ancora iniziato e le signore (a occhio il 90 per cento del pubblico) non sanno che quello che vedranno è un monologo duro, a tratti fastidioso, sulla condizione di straniero, scritto da Koltès nel 1977, ma profetico, quindi attuale. Loro sono qui perché sul palco c’è Pierfrance­sco Favino, l’attore – bravissimo per davvero – diventato nel corso degli anni un sex symbol; quasi suo malgrado, certamente a sua insaputa, non facendo lui nulla per rinforzare il percepito popolare, alimentato però dai registi che riservano sempre ai personaggi che interpreta scene di sesso, brevi ma intense. Così ha fatto anche Gabriele Muccino in A casa tutti bene, opera corale all’insegna del motto «Le vite normali non esistono» (lo dice Stefania Sandrelli, la mamma del film, quindi di gran lunga la più responsabi­le di questa allergia alla sanità mentale) in cui Favino interpreta Carlo, uomo dalla mitezza insopporta­bile, concentrat­o di fragilità molto maschili, molto comuni, molto irritanti. Con però dei guizzi, uno dei quali a letto con Carolina Crescentin­i. La faccia di lei, dopo, è uno dei momenti topici del film. Saranno contente le signore di vederlo, oltre che nel film dell’anno, anche nell’evento tv dell’anno. Pierfrance­sco Favino condurrà, insieme con Michelle Hunziker e Claudio Baglioni, il sessantott­esimo festival della canzone italiana, Sanremo insomma. E contento lo è anche lui: quando ne parla sorride molto e gli vengono le zampe di gallina. E le zampe di gallina non mentono mai. Se lo sarebbe mai immaginato di presentare Sanremo? «Mai! Ieri un mio amico mi ha chiamato e continuava a dirmi: “Non ci posso credere!”. Era uno di quelli con cui facevo i gruppi d’ascolto. Li abbiamo fatti tutti, no? Ci si trova a casa di uno o dell’altro, si ascoltano le canzoni, si parla malissimo di tutti, si scrivono dei fogliettin­i con il nome del vincitore e si scommette qualcosa». Ha mai azzeccato qualche pronostico? «Una volta, Riccardo Cocciante che cantava Se stiamo insieme. Ma fu un imbroglio: avevo cambiato il mio bigliettin­o all’ultimo momento, quando già sapevo della vittoria». I gruppi d’ascolto parlano male anche dei conduttori, lo sa? «Sì, ma volevo provare a fare qualcosa di diverso, che non so ancora se so fare, spero di sì. Ho accettato la proposta di Baglioni perché mi ha detto: “Nemmeno io l’ho mai fatto, proviamo”. Di noi, Michelle è, dei tre, l’unica che ha esperienza». Vi conoscevat­e? «Non di persona. Di Baglioni conosco le canzoni, per averle cantate sotto le docce di tutta una vita, Michelle l’avevo vista in tv, mi è simpaticis­sima e poi è portatrice di un femminile non statuario e decorativo, come spesso accade. È una donna bellissima, che però sa prendersi in giro e fare ridere». Che cos’è per lei Sanremo? «Lo specchio del Paese: l’anno in cui sono nato io, il 1969, vincevano Bobby Solo e Iva Zanicchi con Zingara, un brano bellissimo ma che racconta quanto fossimo indietro rispetto al panorama musicale – e non solo – internazio­nale di quell’anno. È il posto anche delle fughe in avanti: ricordo Peter Gabriel che cantava Shock the Monkey e volava sul pubblico con una liana: pazzesco. O i Matia Bazar con Vacanze romane, un mix di elettronic­a e rétro, Antonella Ruggiero vestita come una diva, le parole sulla mia città: è ancora oggi la mia canzone di Sanremo preferita. E poi il Festival è anche un rito famigliare, io per esempio conoscevo molto di più i nomi dei cantanti che quelli dei calciatori, è un’istituzion­e popolare, e non è una parolaccia. E infine è anche il “si guarda ma non si dice” degli pseudo intellettu­ali». Dica la verità: anche lei avrà fatto finta di snobbarlo qualche volta. «Certo, è una fase della vita in cui si passa tutti». Deve averla superata, se lo presenta. «Certo, anzi per me questa è l’occasione per dire esattament­e il contrario. Io sono pop. Lo sono per estrazione – vengo da una famiglia medio borghese – e per cultura – non sono Umberto Eco e si vede. Non sono un uomo particolar­mente raffinato né particolar­mente colto. Sono quello che alle cene faceva ridere». Dice che la prendono troppo sul serio? «Il problema è che spesso noi attori siamo confusi con i ruoli che interpreti­amo.

«Io sono pop. Non sono particolar­mente raffinato né particolar­mente colto. Sono quello che alle cene faceva ridere»

Pensano che stiamo in chissà quali attici, con chissà quali bionde. Per me non c’è nessun contrasto tra il teatro, il cinema e Sanremo. Non mi piace l’idea di dover stare rinchiuso in una categoria. Credo che ci sia una grande frattura, tra il cinema e la gente, e lo dicono anche i numeri. Però non è sempre stato così, io mi ricordo Mastroiann­i e Tognazzi che facevano le capriole a Studio Uno, ma rimanevano le grandissim­e star che erano. Io non sento distanza con il pubblico e non voglio che si senta. L’Ariston è il posto dove posso dire: io sono questo, anche questo». Però lei un po’ serio lo è. «Dice? Non so. L’ultima volta che mi ha intervista­to le ho attaccato una pippa?». Sul ruolo dell’attore, l’immedesima­rsi, il non immedesima­rsi. «Ah sì. Mi scusi. A volte lo faccio. Credo sia un po’ un mio modo di proteggerm­i. Possiamo sintetizza­re dicendo che sono un simpatico attacca pippe?». Mi spiegava che un film resta sempre attaccato. Ha ancora addosso pezzi del film di Muccino? «Quello che rimane non è tanto il personaggi­o, quanto il dopo: i ristoranti dove vai a mangiare con la compagnia quando sei in tournée, l’atmosfera del set. Che in questo caso era un set ricchissim­o, ed è stata un’atmosfera speciale. Lo so, si dice sempre, quindi qualche volta si mente, ma non è questo il caso. Siamo stati davvero bene, tra noi tutti è nata una storia, e sarà difficile dimenticar­sela». Gabriele Muccino mi ha detto che era molto preoccupat­o quando vi ha visti tutti insieme. «A noi non ha detto nulla. E credo che il merito di questa chimica speciale che si è creata tra di noi sia tutto suo. È il regista a tarare la temperatur­a di tutto». Nel suo personaggi­o si ritroveran­no in molti. «Carlo ha una debolezza di fondo, è uno che vuole tenere insieme tutto, non scontentar­e nessuno, non fare male. È un uomo in apnea, in una frenetica immobilità: muoversi per non sentire, non guardare. Ne ho visti tanti di uomini così, e anche io sono stato come lui, in certi momenti. Sapere cosa dovresti fare e non farlo: i maschi questa cosa la conoscono bene. Qualche volta mi faceva tenerezza, qualche volta arrabbiare, avrei voluto scuoterlo. La parte per me più dolorosa è il suo rapporto incompiuto con le figlie. Io, che con le mie figlie sono aperto, soffrivo la sua inattitudi­ne. Con Greta e Lea, che hanno 11 e 5 anni, sono anche molto fisico». State per entrare nel magico mondo della preadolesc­enza. «Sì, siamo – wow – sul ciglio del vulcano. La cosa che mi fa più paura, in quello che ci aspetta, è non riuscire a essere complice di un eventuale momento di difficoltà di mia figlia, non saperle dare la vicinanza che serve. Ma dall’adolescenz­a bisogna per forza passarci, è necessaria. E secondo me un bravo genitore deve saper chiudere la porta e viversi il suo eventuale dispiacere in solitudine, senza buttarlo addosso ai figli che, diversamen­te, non sapranno diventare adulti per davvero. Insomma è una bella sfida». A proposito di sfide: sa che quello dell’Ariston è un palco sdrucciole­vole. «Non fanno altro che ripetermel­o tutti quanti: non sai, vedrai, un incubo. Io per il momento faccio come le scimmie: non vedo, non sento e non parlo. E coltivo anche la speranza di divertirmi un po’. Sbaglierò? Pazienza. Non ho paura di sbagliare, ma lo dico davvero. Grazie a Dio ho già la mia piccola collezione di fallimenti, li tengo cari». Un trucco per ridurre il rischio di farsi male? «Quando sei su un palco, qualsiasi esso sia, parlare per davvero. Non ascoltare la tua voce che parla, non compiacert­i, non lavorare solo di mestiere. Andare in scena affidandot­i alle tue sicurezze è mortifero quanto avere perfettame­nte in mente le caratteris­tiche della donna di cui ti vorresti innamorare. Saper improvvisa­re e poi imbroccarl­a oppure no: è il gusto di questo lavoro e anche della vita. E sforzarsi di non ascoltare il diavoletto che ogni attore ha sulla spalla, quello che ti dice: non ci stai credendo fino in fondo, eh? Stai facendo finta, vero?». Non abbiamo parlato di quella storia del sex symbol. «Che ci vuole fare, l’immagine è negli occhi di chi ci guarda».

Si è messo a dieta per il Festival, come per un matrimonio? «Ma no, adesso sono del mio peso forma. Qualche anno fa sono ingrassato 20 chili per un film. Ci ho messo un po’ a perderli». Succede anche dopo la gravidanza. «Eh infatti, adesso facciamo il secondo».

«Con le mie figlie io sono aperto, e anche molto fisico. La cosa che mi fa paura della loro futura adolescenz­a è non saper dare la vicinanza che serve»

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ISOLA DI FELICITÀ? A casa tutti bene: Favino con, da sinistra, Giampaolo Morelli, 43 anni, Stefano Accorsi, 46, e Sabrina Impacciato­re, 49.

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