Che OSCAR sarà senza Harvey Weinstein?
La cerimonia più ambita di Hollywood compie 90 anni, e segue l’uragano di denunce per molestie che ha portato all’espulsione del fondatore della Miramax dall’Academy e dal sindacato dei produttori. C’è chi scommette che qualcosa è cambiato per sempre. E i
Michael De Luca, produttore dello show della prossima notte degli Oscar del 4 marzo, edizione super celebrativa perché il premio compie 90 anni, invita ad aspettarsi grandi cose. Dice di essersi ispirato alla cerimonia, altrettanto sfarzosa, del 70esimo compleanno, nel 1998. Fu un’edizione record: 57 milioni di telespettatori. Mai prima e mai dopo, l’audience è andata oltre i 50. Segreti di tanto successo? Presentava Billy Crystal, ma non era la prima volta. Era l’anno delle 14 candidature di Titanic, davanti allo Shrine Auditorium (allora si svolgeva lì, adesso al Kodak Theatre), fin dalla mattina presto c’erano decine di ragazzine con magliette e cartelli pieni d’indignazione inneggianti a Leonardo DiCaprio perché non era stato candidato. Era l’anno, più in generale, di una sorta di ricambio generazionale nello star system, l’anno in cui Ben Affleck e Matt Damon vinsero l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale di Will Hunting Genio ribelle, un film prodotto da, sì, avete indovinato, Harvey Weinstein, l’uomo che aveva trasformato la sua professione in uno sport spericolato, senza limiti né regole, di cui la corsa agli Oscar era l’apice.
Fino a un anno fa, nel mese precedente alla premiazione, Harvey era visibile a tutte le cene, a tutti i party, da Beverly Hills a West Hollywood, impegnato nella campagna per far vincere i suoi film. I luoghi dove lo si poteva incontrare, l’Hotel Peninsula con le tende a fiorellini, l’Hotel Montage con i mobili di mogano, hanno qualcosa di sinistro, adesso. Viene subito da pensare alle suite da 980 dollari a notte in cui Weinstein avrebbe ricattato sessualmente Ashley Judd e tante altre, alla stanza del Montage dove sarebbe avvenuto lo stupro denunciato alla polizia di Los Angeles da un’attrice anonima. La vicenda Weinstein non poteva non avere un impatto sulla stagione dei premi. Il nuovo clima lo ha ben riassunto il comico Seth Meyers, conduttore della serata dei Golden Globe con la battuta iniziale: «È il 2018, finalmente la marijuana è legale, finalmente le molestie sessuali non lo sono più». E mentre il pendolo di questo cambiamento epocale oscilla disordinatamente, mescolando vicende familiari tutte da chiarire, come quella di Woody Allen, ad accuse circostanziate, spostando la conversazione da abusi di potere a corteggiamenti, confondendo erroneamente stupri e pacche sul sedere, ricatti sessuali e avance, la sensazione che qualcosa sia cambiato per sempre è cristallina e questi Oscar lo confermeranno. Dice Sharon Waxman, fondatrice del sito esperto in cose hollywoodiane The Wrap: «Il sofà del produttore, l’atmosfera permissiva sui set, le costanti molestie e aggressioni non saranno più tollerate. Ma come tutte le rivoluzioni, questa fase di transizione è anche dolorosa e non sempre giusta». Si può dire che Hollywood sia stata come in lutto in questi mesi, ma il lutto deve finire e lo sanno tutti. «Del resto, celebrare e auto-celebrarci è la cosa che sappiamo fare meglio: lo spettacolo deve continuare», dice Susan Patricola, publicist di lungo corso che rappresenta molte star. Harvey è stato espulso dall’Academy e dalla Producers Guild, il sindacato dei produttori. In tutte le istituzioni che governano Hollywood sono state create task force per stilare liste di regole e controllare comportamenti. «Guardi che non tutti erano d’accordo sull’espulsione di Harvey», aggiunge a bassa voce, mentre pranziamo al Polo Lounge, un membro dell’Academy che non vuole essere nominato. «Ma l’Academy ha da tempo un problema di immagine, soprattutto dopo la campagna #oscarssowhite iniziata nel 2015. Deve adeguarsi allo spirito del tempo, altrimenti è un’istituzione morta». Elenchi di quello che si può e non si può fare ricordano il Codice Hays, il regolamento moralizzatore in vigore a Hollywood tra gli anni ’30 e gli anni ’60. «Ma è impossibile paragonare quei tempi al dopo Weinstein», avverte Anne Helen Petersen, autrice del libro Scandals of Classic Hollywood: Sex, Deviance, and Drama from the Golden Age of American Cinema. «Il Codice Hays si occupava di quello che i film mostravano, non dei dietro le quinte. E, dietro le quinte, in termini di ricatti sessuali nei confronti delle attrici, accadeva ciò che possiamo immaginare, solo che non era
È il 2018, finalmente la marijuana è legale, finalmente le molestie sessuali non lo sono più
considerato scandaloso: era un modus vivendi». In questo nuovo scenario, chi vince e chi perde gli Oscar? Intanto, l’unico film che Weinstein avrebbe potuto portare alla cerimonia è finito nel tritacarne: I segreti di Wind River, ottimo lavoro e premio per la miglior regia al Certain Regard di Cannes (al cinema dal 29 marzo). Il nome di Weinstein è sparito dai titoli di testa, il regista e autore Taylor Sheridan se lo è ripreso in seguito allo scandalo e ha devoluto parte dei guadagni alle associazioni in difesa delle donne native americane maltrattate perché il film parla di questo. Ma è chiaro che ogni chance di candidatura per gli interpreti, Elizabeth Olsen e Jeremy Renner, è andata a rotoli. Un simile tsunami azzera le sue possibilità di concorrere: ci vogliono milioni di dollari per dare visibilità a chi vuole arrivare fino in fondo alla corsa agli Oscar, e se non ha uno studio alle spalle è praticamente impossibile farcela.
Quanto ai registi, la presenza di Greta Gerwig con Lady Bird, quinta donna in novant’anni a essere candidata tra i migliori cinque dell’anno, è certamente un segnale di inedita attenzione al ruolo femminile nell’industria. Per tradizione, il premio alla migliore attrice viene consegnato da chi ha vinto come miglior attore l’anno prima e, nel 2018, toccherebbe a Casey Affleck. Ma Affleck non ci sarà, per evitare polemiche. Un’accusa di molestie risalente a otto anni fa non gli ha impedito di vincere l’anno scorso. Ma, appunto, si trattava dell’anno scorso, un’era geologica fa. E Christopher Plummer, candidato come miglior attore non protagonista per il film Tutti i soldi del mondo è lì per ricordare le accuse a Kevin Spacey e la decisione del regista Ridley Scott di cancellarlo dalla pellicola. Un film come Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha enormi possibilità di trasformare in statuette buona parte delle sue sette nomination, magari anche a scapito di chi è al momento il vincitore morale (La forma dell’acqua, con 13 nomination) e non solo perché è un ottimo film: è la storia di una donna in cerca di vendetta perché la figlia è stata stuprata e uccisa. Così come Scappa - Get Out (quattro nomination), opera prima del giovane afroamericano Jordan Peele: se vincesse come miglior film vorrebbe dire che Hollywood lancia un segnale preciso: «Stiamo voltando pagina, siamo giovani, siamo nuovi, siamo rinati». Il miglior attore protagonista che dovrebbe avere già la statuetta in tasca è Gary Oldman per L’ora più buia. Eppure, qualcosa di molto buio si sta abbattendo su di lui: è stata ripescata una vecchia storia, un’accusa di aggressioni domestiche da parte della ex moglie Donya Fiorentino. Lui le avrebbe lanciato un telefono addosso, lei andò alla polizia, lui negò, tutto finì senza nemmeno una querela. Costerà un Oscar a Oldman? E lo farà avere a Timothée Chalamet, il protagonista di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, il suo principale concorrente nella categoria? E le dichiarazioni del giovane attore «Non lavorerò mai più con Woody Allen» (con cui ha appena girato A Rainy Day in New York, in post produzione) non sembreranno un esagerato, forzato, modo di mettersi dalla «parte giusta»?
Anche Kobe Bryant, eroe popolare e con una nomination per il documentario Dear Basketball, è inseguito da una vecchia accusa di stupro da cui era stato prosciolto. Ombre del passato, ipoteche sul futuro. Il presente di Hollywood è confuso, qualcuno (Weinstein, Spacey) non rientrerà mai più nel salotto d’oro degli Oscar ma qualcuno, forse, sarà perdonato. «È stato perdonato Mel Gibson, figuriamoci se non sarà perdonato il comico Louis C.K., che ha anche già chiesto scusa pubblicamente», afferma Anne Helen Petersen. «Ho segnato sul calendario la data del suo possibile rientro in scena: novembre 2018, a un anno esatto dalle accuse di molestie».
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Una vittoria di Jordan Peele, giovane afroamericano, sarebbe come se Hollywood dicesse: stiamo voltando pagina