IL COLORE del SUPERPAPË
Quando, da bambino, guardava l’Uomo Ragno o Batman, STERLING K. BROWN si chiedeva perché dovessero essere sempre bianchi. Così, quando gli è stato proposto di interpretare Black Panther non ha avuto dubbi. Sapeva che Andrew e Amaré sarebbero stati felici
Ho incontrato Sterling K. Brown al Bloom Cafe di Los Angeles, ci ho chiacchierato per quasi un’ora e non ho osato chiedergli niente sulla più attesa puntata di This Is Us (in onda negli Stati Uniti il 4 febbraio, dopo il Super Bowl) che dovrebbe risolvere tutti i misteri della morte di uno dei personaggi, Jack Pearson, faccenda sulla quale gli sceneggiatori stanno tenendo sui carboni ardenti il pubblico da due stagioni. Non gli ho chiesto niente un po’ perché sapevo che non avrebbe potuto rispondermi e un po’ perché, se avessi avuto delle informazioni, non credo che mi sarei trattenuta dal raccontarle, quindi niente spoiler. Sterling (la K del secondo nome sta per Kelby) è uno dei volti del momento, già apprezzato nella serie su O.J. Simpson dove interpretava il procuratore dell’accusa, Christopher Darden, ed è fresco di Golden Globe e di Sag Award, il premio assegnato dal sindacato degli attori di Hollywood. Ha una voce profonda, una bella risata e un eloquio da gentiluomo d’altri tempi. Rappresenta, sul piccolo schermo e dal vivo, l’afroamericano borghese, laureato e per bene, stile Barack Obama. Al punto che quando hanno chiesto ad Aaron Sorkin se mai scriverà un seguito di West Wing , la serie di fine anni Novanta ambientata alla Casa Bianca,
lo sceneggiatore ha detto che gli piacerebbe avere come protagonista un presidente nero e che come interprete sceglierebbe volentieri proprio Sterling. Chissà se succederà. Intanto l’attore sarà presto al cinema con Black Panther, in uscita il 14 febbraio: il primo film della Marvel con un supereroe nero. Ma non è lei il protagonista, giusto? «No, ho una parte piccola, ma significativa. E anche se non fosse stata particolarmente significativa, avrei voluto esserci comunque. Black Panther è un apripista, una novità assoluta. Da piccolo adoravo i supereroi, Batman e Superman e l’Uomo Ragno, ma erano tutti bianchi. L’idea che i miei figli (Andrew e Amaré, sei e due anni, ndr) possano vedere sullo schermo un personaggio dell’universo Marvel che gli somiglia è una novità pazzesca». Soprattutto perché il progetto di Black Panther risale al 1992 e finora era rimasto a prendere polvere. «Tante cose stanno cambiando. In This Is Us il mio personaggio è un orfano nero adottato da una famiglia di bianchi, con tutte le complicazioni che questo comporta. Il personaggio di mia sorella è una ragazza decisamente sovrappeso. La cultura dell’inclusione passa anche attraverso una serie come la nostra, che va in onda in ogni angolo d’America, su un canale non a pagamento». Lei viene da Saint Louis, Missouri. Come è arrivato a Hollywood? «Lunga storia. Mia madre era insegnante e vedova. Vivevamo in un quartiere nero ma lei decise di mandarmi in una scuola per bianchi. Eravamo solo cinque afroamericani e io mi sentivo a disagio perché ero in minoranza e senza i vestiti giusti, poi tornavo nel mio quartiere e mi sentivo ancora a disagio perché venivo preso in giro in quanto frequentavo la scuola dei bianchi. Sono diventato grande dibattendomi in questi dilemmi: chi sono, a quale gruppo appartengo, che cosa mi definisce? Tutto questo non è stato facile, però deve essere servito a qualcosa. Io e gli altri quattro neri della mia scuola siamo finiti a frequentare le migliori università d’America: Yale, Harvard, MIT. Io sono andato a fare Economia a Stanford. A metà corso ho fatto anche uno stage alla Federal Reserve». Sento che c’è un «ma» in arrivo. «Mi annoiavo. E fin dai tempi del liceo mi ero divertito a recitare. Ne ho parlato con mia madre e mi ha dato la sua benedizione. Mi sono trasferito a New York e ho cambiato corso, a 25 anni ero laureato e in cerca di lavoro come attore. Vivevo ad Harlem in una stanza minuscola, con il bagno sul pianerottolo, d’inverno faceva freddo, d’estate si schiattava di caldo, mi svegliavo all’alba e passavo la giornata sugli autobus per prendere un po’ di aria condizionata. Il primo lavoro fu come comparsa in uno spettacolo teatrale. Neanche una battuta. Ma la paga era 300 dollari a settimana e l’affitto della stanza 85. Non mi sono mai sentito così ricco. Praticamente, Rockefeller». L’attore che più ammira? «Denzel Washington, che domanda. Se non ti piace Denzel, vuol dire che hai cattivo gusto! E poi Daniel Day-Lewis, Don Cheadle e il rimpianto Philip Seymour Hoffman». Quindi ha sempre voluto essere Denzel e mai, che so, Eddie Murphy o Chris Rock? «La comicità è una diversa categoria del genio. Ho sempre pensato che quello che fa uno stand-up comedian sia una delle cose più belle al mondo per un attore. Ma io sarei terrorizzato. Su un palco, da solo, con la gente che ti guarda e ti sfida: fammi ridere!? Aiuto!». Anche sua moglie Ryan Michelle Bathe è attrice e ha una parte in This Is Us. Non c’è competizione in casa? «Stiamo insieme da 14 anni e la adoro. Certo, la competizione può esserci, soprattutto se le due carriere non sono contemporaneamente allo stesso livello. La verità, nel mio caso? Senza mia moglie non sarei arrivato a questo momento della vita in cui le cose stanno andando così bene. Il mio successo è il nostro successo». Una cosa che avrebbe potuto dire Barack Obama di Michelle. A proposito, ha mai incontrato l’ex presidente? «No. Ma ho incontrato Michelle. Ero alla Casa Bianca, in una lunga fila, lei dava la mano a tutti. Quando è arrivato il mio turno, le ho chiesto: posso avere un abbraccio? E lei mi ha abbracciato. Posso morire felice».
«LA PRIMA VOLTA A TEATRO ERO UNA COMPARSA. MA OGNI SETTIMANA MI PAGAVANO 300 DOLLARI: COSÌ RICCO NON MI SONO MAI SENTITO»