LA BELLEZZA SENZA PACE
Il Louvre ha iniziato ora a esporre l’ARTE TRAFUGATA dai nazisti durante la guerra, non trovandone i proprietari. Al cinema, un interessante documentario spiega perché
Cè un aneddoto che si cita quando si parla di risposte perfette, cose giuste dette al momento giusto alla persona giusta. È quello che racconta di un ufficiale della Gestapo, entrato nello studio di Picasso, a Parigi, poco dopo l’occupazione nazista, nel 1940. Su un tavolo c’è una cartolina che raffigura Guernica, il capolavoro dipinto dall’artista nel 1937, subito dopo il bombardamento del paese basco da parte dei nazifascisti, forse il quadro più famoso che immortala l’orrore della guerra. L’ufficiale della Gestapo chiede a Picasso: lo avete fatto voi, maestro? Lui risponde: no, questa è opera vostra. L’aneddoto è citato anche da Toni Servillo (al centro) in Hitler contro Picasso e gli altri. L’ossessione nazista per l’arte, in anteprima mondiale nei nostri cinema il 13 e 14 marzo, realizzato da 3D in coproduzione con Nexo Digital (info biglietti: nexodigital.it). Picasso, racconta Servillo, è lucidissimo. È lui a fare la migliore sintesi, a una giornalista, nel 1945, dell’ossessione per l’arte di Hitler e al conseguente saccheggio: «L’artista è un politico. La pittura non è fatta per decorare appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico». I nazisti attuano una «guerra dell’arte» che corre parallela allo sterminio degli ebrei: da una parte cercando di distruggerla in quanto espressione di libertà (astrattismo, espressionismo, cubismo, impressionismo sono bollate «arte degenerata»), dall’altra facendola sparire insieme a milioni di persone. Si calcola che siano state sottratte 600 mila opere, dalle rinascimentali alla pittura fiamminga, dal barocco all’arte moderna, e, poiché la maggior parte dei collezionisti era ebrea, molti di loro, derubati, finirono nei campi di concentramento, altri riuscirono a barattare le opere per un visto d’espatrio. Del «più grande furto d’arte del Novecento» si sapeva, conoscevamo il testamento di Hitler, dettato prima del suicidio il 29 aprile 1945, che registrava come prima preoccupazione il destino dell’enorme collezione d’arte. Conoscevamo i monuments men dell’esercito americano che tracciavano i movimenti delle opere in Europa durante la guerra, e, dall’altra parte, i duemila addetti della ERR, gli uomini di Hitler che archiviavano le grandi confische. Quello che non sapevamo – ed è il merito del bel documentario diretto da Claudio Poli su soggetto di Didi Gnocchi scritto da Sabina Fedeli e Arianna Marelli – era quanto fosse irrisolto il percorso di restituzione ai legittimi eredi, che ha fatto sì, per esempio, che il Museo del Louvre abbia iniziato a esporre adesso 31 degli 800 dipinti che conserva e di cui non è proprietario. Le storie dei sopravvissuti e dei loro nipoti sono commoventi e dolorose, tra quattro mostre sull’arte trafugata del 2017, a Parigi (parte della enorme collezione Rosenberg), a Deventer, in Olanda (quadri dai depositi statali e da alcune collezioni razziate), a Berna e Bonn (la collezione segreta di Cornelius Gurlitt, figlio di un mercante d’arte collaborazionista).