IL GRANDE JOHN GOODMAN
Vent’anni fa, usciva al cinema il capolavoro dei fratelli Coen. E oggi JOHN GOODMAN spiega perché dovremmo imparare dal suo protagonista a moderare lo stress. Quanto a lui, per rilassarsi, dice, ha deciso di fermarsi un po’ e oggi, giura, «il mio unico la
Dopo neanche cinque minuti di chiacchierata, quando ancora stiamo parlando del tempo, John Goodman mi dà forse la migliore definizione della sua personalità: «Sa, posso trovare mille cose di cui lamentarmi, è quello che mi riesce meglio». Nello specifico, si riferisce a quanto sia seccante prendere la metropolitana a New York perché fuori fa freddo, ma dentro «è umido e si muore di caldo». E aggiunge che è felice di non abitare più nella città in cui era arrivato nel 1975 in cerca di fortuna, con il sogno di diventare il nuovo Marlon Brando: «Lui era speciale. Ha cambiato il mondo, esiste un prima e un dopo di lui. È stato un momento entusiasmante». Le cose per Goodman sono andate un po’ diversamente, ma a 65 anni la sua carriera è comunque un’invidiabile sfilza di successi tra teatro, film e televisione, e la sua faccia una delle più amate dal pubblico. Vent’anni fa, nel marzo 1998, arrivava al cinema Il grande Lebowski, film culto dei fratelli Coen con Goodman nel ruolo del veterano Walter Sobchak. Prima di quello e degli altri film con i Coen – sei in totale, da Barton Fink a A proposito di Davis, passando per Fratello, dove sei? – nel suo percorso c’è Roseanne, serie di enorme successo andata in onda negli Stati Uniti dal 1988 al 1997 (in Italia si intitolava Pappa e ciccia), che il 27 marzo torna in tv con il cast originale: Roseanne Barr nei panni della protagonista e Goodman in quelli del marito Dan. Per la prima volta nella serie si raccontavano le vicende di una famiglia appartenente alla classe operaia invece che alla borghesia. Sovrappeso, impegnati in lavori umili, costantemente preoccupati di come arrivare a fine mese e pagare le bollette, ma allo stesso tempo ironici e leggeri, i Conner hanno rappresentato quell’America di cui oggi si parla tanto, perché rimasta indietro, dimenticata dalla classe politica, tradita dai Democratici
e quindi propensa a vedere in Trump una soluzione. «Non dico per chi ha votato Dan», anticipa Goodman. «Nel secondo episodio scopriamo che Roseanne e la sorella non si parlano dal giorno delle elezioni perché hanno votato in maniera diversa. È successo davvero nelle famiglie americane. Molte persone sono arrabbiate e spaventate, ed è una cosa che non si può ignorare». C’è molta attesa per il ritorno di Pappa e ciccia. Lei come lo sta vivendo? «Sono felice. Tornare sul set è stato fantastico. Abbiamo iniziato a girare a ottobre, per nove settimane, alla fine ero quasi triste che fosse di nuovo tutto finito. Però non voglio montarmi la testa: bisogna vedere come reagirà il pubblico. Magari non ci guarderà nessuno». L’America in questi vent’anni è molto cambiata. «Credo che i Conner siano rimasti fondamentalmente delle buone persone, ma sono invecchiati, quindi il numero delle preoccupazioni è aumentato. Hanno il problema dell’assicurazione sanitaria, sono diventati nonni e hanno più bocche da sfamare». Vuole sempre bene al suo personaggio? «Oggi ancora di più. È un uomo migliore di me: ha più pazienza, lavora più sodo, fa quello che deve per sopravvivere, è preoccupato per il futuro, ma non molla». Ha rivisto gli episodi vecchi? «Non mi riguardo mai, non mi dà alcun piacere vedermi sullo schermo. Noto solo le cose negative». Si può dire che Pappa e ciccia vita? «Sì. Mi diede un lavoro stabile: fino a quel momento vivevo con la valigia in mano, sempre in giro. Però mi regalò anche una cosa che non cercavo: la fama. Con tutto quello che ne consegue, come i tabloid interessati alla mia vita. Non la presi bene, fu difficile». Che cosa non le piaceva della fama? «Mi mancava l’anonimato. In più in quel periodo bevevo molto. Non ero una bella persona. Era un circolo vizioso: più ero famoso, più bevevo perché non lo volevo le cambiò la essere. Per tanto tempo l’alcolismo è stato il mio solo hobby, l’unico che abbia mai avuto». Sei film con i fratelli Coen sono un record. Qual è la cosa che apprezza di più del lavorare con loro? «Scrivono sceneggiature fantastiche. Si circondano di persone di talento. Come attore ti senti coccolato, è una bella sensazione. In più, siccome le parti sono scritte bene, le battute diventano facili da memorizzare e non devo fare troppa fatica, che per me è un aspetto importante. E poi con loro mi diverto. Abbiamo uno humour simile, anche se il loro è più intelligente del mio». Intende dire che non è uno di quegli attori per cui recitare deve essere anche sudore e sangue? «Ultimamente ho lavorato troppo e non ho più la passione di prima. Sono invecchiato, mi stanco facilmente e quindi faccio scelte dettate dalla pigrizia. Il risultato è che non rendo come potrei e dovrei. Per questo motivo ho deciso di fermarmi per un po’. Forse è venuto il momento di trovare un hobby vero, visto che non bevo più. Ho sempre voluto giocare a golf. Vedremo. Al momento il mio unico lavoro è portare a passeggio il cane». Prendersi in giro da solo è la sua arma di sopravvivenza? «È la cosa che mi ha salvato. Sono molto duro con me stesso, penso sempre di non essere all’altezza. Grazie all’ironia sono andato avanti». Vent’anni fa usciva Il grande Lebowski. Che ricordi ha? «Ci siamo molto divertiti. Io – circondato da mostri di bravura come Jeff Bridges, John Turturro e Steve Buscemi – cercavo solo di tenere il passo, di essere alla loro altezza». All’epoca immaginava che il film sarebbe diventato un tale culto? «No. Ancora oggi me ne sorprendo. Il merito è stato di Bridges e della sua personalità». Perché Lebowski piace ancora tanto? «Oggi più che mai dovremmo imparare da lui: siamo stressati e iperconnessi. Invece, dovremmo essere tutti più rilassati e magari fumati. Il dude è il vero eroe dei nostri tempi». Lei è anche molto amico di George Clooney. Pensa che scenderà in politica? «Non credo. George sta facendo già molto in termini di impegno sociale e continuerà a farlo in modo più efficace che se fosse in politica. Amal anche è molto coinvolta. Credo che George faccia bene a rimanerne fuori. È davvero una gran persona, intelligente e generosa. Ha preso molto da suo padre, un uomo straordinario». Tornando a lei: è davvero sicuro di voler non lavorare per un po’? «Ho bisogno di cambiare, ma se mi chiede che cosa voglio fare non lo so. Forse insegnare? Di sicuro so che sono stanco e che non voglio lavorare solo per inerzia o per la pigrizia di non dire di no: se la tua faccia deve finire su un dvd o sul poster di un film in eterno, be’ meglio che quel film sia roba buona».