CAPELLI AFRO? Sì grazie
«Ogni donna deve poter esprimere se stessa, soprattutto se appartiene a una minoranza». Lei, BOZOMA SAINT JOHN, lo ha fatto. E adesso, con i suoi ricci e i suoi vestiti coloratissimi, è arrivata ai vertici di Uber
SSe tutte le vite assomigliano a romanzi, quella di Bozoma Saint John ancora di più. «Mi piace la parola serendipity, quando tutto succede per caso, ma tutto accade per un motivo. Seguo sempre il mio istinto, anche sul lavoro», mi dice la Chief brand officer di Uber quando la incontro a New York, di ritorno da Los Angeles dove ha partecipato alla notte degli Oscar, incantando tutti sul tappeto rosso del party di Vanity Fair America e finendo immancabilmente nella lista delle donne meglio vestite della serata. Boz – gli amici la chiamano così – non passa inosservata. Quando entra nel ristorante, non c’è una sola testa che non si giri. Una signora bionda impellicciata non resiste alla curiosità e le chiede se sia una celebrity, forse scambiandola per Beyoncé. Non è un nome a caso: nessun’altra donna sarebbe in grado di portare con tale orgoglio la pettinatura che ha lei e che la rende ancora più alta e imponente, praticamente una dea. Essendo una delle poche afroamericane con un lavoro ai vertici della Silicon Valley, Bozoma oltre che una star è un unicorno. Su di lei si poggiano le speranze di cambiare un ambiente intriso di maschilismo e di discriminazione sessista.
«Mi sono innamorata della sfida: raccontare Uber dal punto di vista umano. Si parla sempre del successo economico, ma poco delle persone, che invece sono fondamentali per umanizzare il modo in cui guardiamo all’innovazione. Sono ottimista per natura. Credo sia un momento fantastico, soprattutto per una donna di colore. Ci sono cambiamenti da fare e io posso contribuire. Se ci riusciamo noi, con tutto quello che è successo, perché non possono farlo anche gli altri?».
AUber Bozoma arriva nel giugno 2017 portata da Arianna Huffington, che dal 2016 fa parte del consiglio di amministrazione. «Ci siamo conosciute a una cena. È venuta da me e mi ha detto: “Mi sembri un tipo interessante, parlami di te”». Prima, aveva trascorso tre anni in Pepsi e altrettanti a capo della divisione global consumer marketing di Apple Music. Uber in quel momento è in un periodo difficile, travolta da scandali sessuali e voci che parlano di un ambiente di lavoro tossico. Travis Kalanick, Ceo e cofondatore, si dimette lo stesso mese, su richiesta di cinque investitori. «Misoginia? Certo che c’è. Sono sempre stata una donna nera, e sono abbastanza sicura che la vita di un uomo bianco sia più facile. Quando sono in una stanza piena di uomini devo fare uno sforzo maggiore per far prendere in considerazione le mie idee. È come se tutti giocassero a baseball e io fossi l’unica che gioca a pallavolo. C’è un senso di comunità da cui sono esclusa, a volte anche un linguaggio. Per questo la rappresentazione è importante: devono essere presenti più voci diverse. L’ideale sarebbe che la Silicon Valley rispecchiasse la popolazione, come presenza di donne e di minoranze. Da lì si può poi crescere». I numeri del sondaggio «Elefante nella valle» (aprile 2017) parlano chiaro: tutte le oltre 200 donne intervistate con posizioni senior in aziende tech riportano di aver subito una qualche interazione sessista. Liza Mundy, autrice di un articolo su The Atlantic intitolato Perché la Silicon Valley è così orribile con le donne?, scrive: «Le donne non solo sono assunte in numero minore, ma abbandonano anche il lavoro a un ritmo doppio rispetto agli uomini. Durante le riunioni sono interrotte molto più spesso degli uomini, hanno meno possibilità di ricevere finanziamenti, sono ritenute meno persuasive dei colleghi maschi». «La cultura si cambia abbattendo il sistema e costruendone un altro», dice Bozoma. «In questo momento siamo fermi alla prima fase: stiamo demolendo. Succede a Hollywood come nel giornalismo, nella tecnologia, ovunque. Il mio ruolo è rimanere salda, in piedi, per far vedere come potrebbe essere diverso il futuro, con una donna di colore in una posizione esecutiva in un’azienda tech. Sta però anche a quelli seduti al tavolo guardarsi intorno e dire: oh, ma quanti uomini bianchi. Cambiamo le cose».
Nata negli Usa ma cresciuta in Ghana dai sei mesi ai 12 anni, quando la famiglia si trasferisce definitivamente in Colorado, Bozoma dice di aver ereditato la sicurezza in se stessa dalla madre. «Invitavo gli amici a casa e lei cucinava cibo africano. O parlava loro in lingua africana, pur conoscendo quattro lingue. Voleva che io e le mie tre sorelle fossimo fiere delle nostre origini. Ha funzionato. Oggi, quando entro in una stanza e sono diversa da tutti, non sento il bisogno di assimilarmi. È quello che insegno anche a mia figlia: lei è americana, ma una volta all’anno torniamo in Africa perché voglio che cresca con la stessa fierezza con cui mi ha cresciuta mia madre». Un orgoglio che Bozoma esprime anche nel modo di vestire e portare i capelli. «L’Africa è molto più di quello che si vede sempre in tv, bambini con le pance dilatate e le mosche intorno. C’è anche progresso, moda, cultura». Oggi indossa una maglia nera e pantaloni larghi a righe bianche, ma è un’eccezione. Di solito è un’esplosione di colori. «Su Instagram tante donne si complimentano con me per il coraggio di non stirarmi i capelli o per come mi vesto. Molte dicono che al lavoro non possono rischiare un look così “etnico”: non sarebbe ben visto. Anche questo va cambiato: ogni donna deve sentirsi libera di esprimere se stessa, soprattutto se appartiene a una minoranza. Io non accetterei mai di rendere i miei capelli più conformi a una norma estetica imposta da chissà chi».
Vacanze in bikini con le amiche, red carpet, la figlia Lael, appuntamenti mondani e di lavoro, tacchi alti e abiti sexy. Sui social Boz condivide tutto. E non nasconde nulla, neanche i dolori. Come quello enorme per la morte del marito, avvenuta per un linfoma nel dicembre 2013. Lei e Peter erano sposati da dieci anni. La bambina ne aveva quattro. Cinque mesi dopo, lei iniziava a lavorare alla Beats Music, poi acquistata da Apple. «Alla prima riunione scoppiai a piangere davanti ai miei collaboratori. Raccontare tutto di me è stato terapeutico, ma anche necessario: mai come oggi dobbiamo presentarci nella nostra interezza, non nascondendo nulla di noi stessi. Specialmente noi donne: per secoli ci hanno detto di non mostrare troppo le emozioni. E ancora adesso ci sono donne in posizioni di potere che non mettono foto dei figli sulla scrivania, o portano solo pantaloni per essere prese sul serio. Sciocchezze. Io condivido tutto perché tutto fa parte di me, e sono orgogliosa dei miei bikini come della mia vulnerabilità: è ciò che mi rende forte. Sono contenta di far vedere che nonostante tutto quello che mi è successo sono ancora in piedi. E non ho niente di cui vergognarmi. Lavorare a contatto con il futuro mi ha salvato la vita. Fossi stata in qualsiasi altro ambiente, probabilmente non sarei mai uscita dal dolore e dalla depressione. Lavorare nel tech mi ha costretta a guardare sempre al domani, l’unica direzione possibile. È per questo che alla fine di tutto sono ottimista. Credo negli esseri umani. Ciò che sta succedendo oggi nel mondo è solo un momentaneo incidente di percorso: superato questo, arriverà qualcosa di meglio». Pag. 95: dolcevita, Rosetta Getty. Gonna, Céline. Orecchini, Sophie Buhai. Bracciale, Ariana Boussard-Reifel. Sandali, Manolo Blahnik. Styling Annina Mislin@Walter Schupfer Management. TEMPO DI LETTURA PREVISTO: 9 MINUTI