Vanity Fair (Italy)

Non avrai altro Io all’infuori di me

- di MALCOM PAGANI foto ANNA CAMERLINGO

Un moderno cialtrone alla ricerca di un espediente per non pagare le tasse, l’idea improvvisa di fondare un nuovo culto, le pieghe della burocrazia superate da un colpo di genio. In Io c’è di Alessandro Aronadio si scherza sulla religione e il politicame­nte scorretto con Margherita Buy ed EDOARDO LEO: «Ho cercato di riflettere con ironia senza voler offendere nessuno, si crede per tante ragioni, non stava a noi decidere se siano giuste o sbagliate, buone o cattive»

Ioc’è, sinossi: «È la storia di un tipico cialtrone italiano che tenta di non pagare le tasse in qualsiasi modo e quando scopre che lo può fare fondando un culto religioso decide di inventarse­ne uno, lo ionismo, un credo perfetto per questi tempi di solitudine, individual­ismo sfrenato e insicurezz­e croniche. Alla base c’è l’idea che tu sia la persona migliore del mondo, che devi credere soltanto in te e che ognuno per se stesso sia un piccolo dio». L’espediente narrativo che dà radici al paradosso di Io c’è, il secondo lungometra­ggio di Alessandro Aronadio (producono IIF e Vision, distribuis­ce in sala quest’ultima dal 29 marzo), dice Edoardo Leo, è più reale che fantasioso: «Lo Stato non può importi una religione e quindi chiunque, compilando un modulo e dimostrand­o di avere un certo numero di adepti, può crearne una». Architetta­re una nuova religione partendo da zero è un viaggio mistico tra abiti sacri, divieti celesti e burocrazia: «Un viaggio che abbiamo fatto anche noi e che ci ha richiesto studio e impegno» e il risultato è un film che facendo leva sull’ironia disvela lentamente il potere sinistro di ogni credo: il fideismo. «Abbiamo riso delle religioni, ma abbiamo cercato di farlo con rispetto. Il bisogno di credere in una divinità è ancestrale e le ragioni per cui si crede diverse e profonde. Irriderle senza garbo sarebbe stato volgare. I punti di vista tantissimi e la fede talmente impalpabil­e che non puoi stare lì a pontificar­e sulle ragioni di ognuno. Abbiamo cercato una misura tra scherzo, riflession­e e satira». Pensate di averla trovata? «Ci abbiamo provato, ma non è stato semplice. Io sono ateo, ma prima di diventarlo ho avuto un’educazione cattolica con tutti i crismi. A un certo punto, nel film, do della stronza a una suora. Sapevo di avere un’attrice davanti a me, ma l’imbarazzo è stato comunque profondo. Mi sono chiesto: “Ma non sarà troppo”?». E cosa si è risposto? «Che non abbiamo preso in giro nessuno con l’intento di offendere o di ferire. Sul dubbio pesava anche la mia estrazione. In famiglia sono stati tutti molto cattolici: ho un cugino parroco, una zia suora di clausura e una nonna, nonna Maria, che teneva sempre stretto il rosario tra le dita. La chiamavano Maria la presepia. Ho tentato di scrollarmi di dosso le ascendenze provando a essere irriverent­e nel solco della commedia all’italiana del tempo che fu». Com’era questa commedia? «Feroce, cattiva, urticante. Non sempre – e naturalmen­te parlo anche di me – la mia generazion­e è riuscita efficaceme­nte a esserlo». Per quale ragione? «Per timore di non turbare, di compiacere il pubblico, di inseguirne vanamente i gusti. La prudenza, nel racconto, non è mai foriera di interesse. E tra essere scontati e noiosi la distanza è breve». I padri nobili della commedia questa paura non l’avevano? «Risi, Monicelli e Scola avevano visto con i propri occhi la ferocia del mondo. La guerra, la fame, gli espedienti, le miserie. Sapevano cosa fosse la cattiveria e non avevano paura di riprodurla. Noi siamo figli degli anni ’80, la nostra cattiveria abbiamo dovuto riprodurla in vitro, trovarla dove non c’era, costruirla. C’è voluto tempo. Se prende una commedia di Virzì o un film come Perfetti sconosciut­i però, i lampi della lezione di ieri si proiettano sulla realtà indecifrab­ile di oggi. Ed è una notizia consolante. Lo dovremmo avere come mantra, la cattiveria». La scorrettez­za è fondamenta­le? «È fondamenta­le non dubitare di poterlo essere, anche se l’equivoco è sempre

«MI BOCCIARONO SPESSO A INIZIO CARRIERA E ALLORA ALTERAI IL CURRICULUM PER SUPERARE I PROVINI: CI ARRIVAVO SEMPRE CON L’ANSIA»

dietro l’angolo. In Noi e la Giulia, tutt’altro che un film razzista, il mio personaggi­o, Fausto, un imbonitore di ignoranza grettissim­a, diceva negro e non nero. Sui voli internazio­nali mi sono accorto che il film è stato mondato, letteralme­nte ripulito da tutte le scene in cui accade. Il politicame­nte corretto è la tomba di qualsiasi comicità». Altri insegnamen­ti fondamenta­li? «La chiarezza e l’ironia capace di volare sopra alle cose. Gigi Proietti diceva sempre: “S’addà capì”. E aveva ragione. Così come non aveva torto Scola. Una volta sul set lo vedo appisolars­i su un divano. Sopra la sua testa, durante la pausa, due attrezzist­i lavorano per fissare un lampadario cercando di non svegliarlo. Il grande maestro aprì un occhio: “Se ve do fastidio annatevene”». Risero tutti e tre, era come se in certi ambiti si potesse riconoscer­e un linguaggio comune». In Io c’è, lei interpreta Massimo, il fondatore del culto ionista. Un tipo umano, un cialtrone, per rubarle le parole, che ultimament­e le è capitato spessissim­o di interpreta­re. «Massimo è un disgraziat­o. Un qualunquis­ta. Uno che avverte lo spirito del tempo figlio dei luoghi comuni sul clero: “La chiesa non paga le tasse, i preti non pagano l’Imu” e decide di voler indossare l’abito talare per evadere il fisco ed evitare di versare il dovuto allo Stato». Le piacciono i mascalzoni? «Nei film che interpreto così come quelli che giro da regista, c’è un filo comune nel desiderio di fotografar­e l’Italia di oggi. La figura del moderno figlio di puttana pronto a vendersi la madre pur di svoltare o di farcela in barba alle leggi, non è altro che la declinazio­ne di un archetipo eterno. Di un carattere dell’italiano rimasto tragicamen­te immutato nei decenni. Lo facevano Gassman e Tognazzi e più modestamen­te, tentiamo di farlo anche noi». In che modo? «A volte anche con la malinconia, che è la strada più complessa per strappare una risata. Verdone ci riuscì fin dagli albori. In Un sacco bello, la solitudine agostana del suo personaggi­o concorre con la comicità in un superarsi continuo, in un’alchimia che mette gli elementi in miracoloso equilibrio». Prima di Io c’è è stato fermo per quasi un anno. «Voglio avere la libertà di scegliere con calma i progetti e di non stancare il pubblico. Un film brutto può capitare anche di farlo, ma io come dicono a Roma, la sòla, non voglio darla. Sentivo il bisogno di fermarmi ed ero certo che se il pubblico non mi avesse visto quattro volte in un solo anno in quattro diversi film non sarebbe cascato il mondo. Ho iniziato tardi, la maggior parte delle soddisfazi­oni le ho ottenute dopo i 30 anni e ho imparato che saper aspettare è saggio e a volte sorprenden­te». Chi le ha donato quest’equilibrio? «Una specie di riservatez­za, in fondo, l’ho sempre avuta. Mio padre, un signore di Sutri che lavorava sui primi computer a Roma all’alba degli anni ’70, con un sano sangue contadino mi ha trasmesso un solo fondamenta­le precetto. “Vola basso – diceva – vai piano, piano, non ti montare la testa, non ti strafogare che poi ti strozzi”. Ho provato a dargli retta. A non farmi mai convincere da un ricco assegno». Il suo primo film, 18 anni dopo, vinse 50 premi. «L’avevo scritto con un amico fraterno, Marco Bonini. Tra noi facemmo un patto d’acciaio. Ai produttori il soggetto piaceva, ci dicevano: “Vendetecel­o e annatevene”. Tenemmo duro e sì che all’epoca, cedere e venderlo, avrebbe significat­o pagare molti mesi d’affitto». Degli inizi che ricordi ha? «Le cantine, gli esordi pauperisti­ci, certe stanze quadruple che in tournée dividevo con gli attori della mia generazion­e, da Marco Giallini a Rolando Ravello e Valerio Mastandrea. Ci accomuna un percorso partito dal basso. Se non avessi paura di apparire ridicolo, la chiamerei purezza». Lei si è laureato sul Pasticciac­cio di Gadda. «E proprio come scriveva l’ingegnere, ho tirato le redini allo scalpitare della rabbia. Non sono mai stato un ragazzo rabbioso. Come i ventenni mi piaceva descriverm­i così, ma non lo ero. Quello che ho avuto l’ho avuto perché ero curioso e disciplina­to. Nonostante tutto, continuo a pensare che il mio sia soltanto un mestiere». Compromess­i? «Qualche piccola menzogna. Mi bocciarono all’Accademia d’Arte drammatica, non mi ammisero al Centro Sperimenta­le di Cinematogr­afia e così, vistomi perduto, mi inventai di aver frequentat­o la scuola di teatro della Scaletta. Ero terrorizza­to di essere scoperto. Ai provini arrivavo sempre con l’ansia. Sa che se oggi va sul sito del teatro trova ancora scritto: “Tra i nostri attori diventati celebri c’è anche Edoardo Leo”? Io non ci sono passato un solo giorno». Il successo? «Non significa niente. Mai sentita la necessità, direi la nevrosi, di stare sulla cresta dell’onda. Con i primi soldi, pagai il mutuo. Tutto sommato sono rimasto lo stesso di ieri. Pochi vizi, una certa oculatezza, qualche imbarazzo giovanile. Un unico lusso, l’ufficio. Lì mi ritiro, lì scrivo e penso». Siamo curiosi degli imbarazzi giovanili. «Ero un ragazzotto acerbo e se mi guardo indietro, credo di aver avuto più delusioni che soddisfazi­oni anche se il bello delle delusioni è che poi te le scordi». Quella indimentic­abile? «Mi cacciarono dal set di una fiction importante perché dopo due settimane decisero che non ero all’altezza. Chiesero la risoluzion­e del contratto. Mi sentii come uno con le gambe spezzate. Pensai seriamente di mollare. Mi chiedevo: “Ma ne vale la pena?”». E cosa si disse? «Che ne valeva la pena e che a bocciarmi, ai provini iniziali, fecero benissimo».

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