Lula, un sogno finito in manette
Adesso che l’ex presidente è in carcere, il Brasile – diviso fra chi lo considera un «eroe» e chi un «demonio» – deve affrontare un domani sempre più incerto. Perché le conseguenze dell’inchiesta Lava Jato che ha portato al suo arresto rischiano di travolgere l’intero Paese. Mani pulite insegna
Dieci ore prima di consegnarsi alla polizia federale, a mezzogiorno di sabato 7 aprile, Luiz Inácio da Silva più noto come Lula ha tenuto un comizio di fronte alla sede del Sindicato dos Metalúrgicos di São Bernardo do Campo. In un clima quasi di festa per fargli coraggio in vista del carcere, un clima che qualcuno ha definito Lula-Palooza, i suoi sostenitori – tra cui l’amica, pupilla ed ex presidente Dilma Rousseff (destituita dall’incarico in seguito a un procedimento di impeachment) –, numerosi militanti del suo e di altri partiti di sinistra, un vescovo, un pastore luterano donna e un gruppo di musicisti improvvisati tra i più stonati dell’America Latina (e la cosa stupisce perché Lula presidente ebbe come ministro della Cultura una star della canzone come Gilberto Gil) lo hanno salutato recitando un Padre nostro e infine cantando un classico della musica brasiliana che fa: «Apesar de você / Amanhã há de ser outro dia», «Nonostante te / domani sarà un altro giorno». E chissà che Lula non stesse rivolgendo, in cuor suo, queste parole a chi lo ha condannato a 12 anni e un mese di prigione, ovvero al giudice Sérgio Moro, il magistrato che sta agli scandali politici del Brasile come Antonio Di Pietro sta a Tangentopoli. La Mani pulite brasiliana parte da un’inchiesta in apparenza minore a nome Lava Jato (autolavaggio, perché un autolavaggio era la copertura in cui si smistava il denaro destinato alle mazzette) iniziata nel 2013, prima scintilla di un’operazione che ha messo sotto accusa Lula, Dilma Rousseff, politici di molti schieramenti, imprenditori, professionisti, in pratica mezza classe dirigente brasiliana beccata con le mani nel sacco. Un’inchiesta che ha sgretolato (e questa carcerazione appare come un sigillo) un po’ tutto ciò che rappresenta Lula, volto di un’epoca che ha segnato profondamente il Paese.
Oggi il Brasile è diviso tra chi ha festeggiato l’arresto dell’ex presidente come una delle più grandi vittorie della democrazia (la giovanissima democrazia brasiliana: le elezioni dirette esistono solo dal 1989) e chi – al contrario – considera questo arresto pretestuoso, un’ombra scura sul futuro, in particolare sulle presidenziali del prossimo ottobre che fanno già gola a candidati di estrema destra, in primis all’ex capitano dell’esercito Jair Messias Bolsonaro. Lula, uno dei fondatori del PT (Partido dos Trabalhadores), ha tentato nel corso di una lunga carriera politica di farsi eleggere presidente cinque volte, gliene sono riuscite due di fila, la prima nel 2002, al ballottaggio, con il 61% dei voti. Per due mandati ha governato il Brasile facendo contenti un po’ tutti, poveri e ricchi. I poveri a cui assegnò la Bolsa Familia (una sorta di reddito di cittadinanza), i ricchi perché diede un impulso molto liberale all’economia. Per qualche anno, il Brasile ha avuto un boom simile a quello dell’Italia del secondo dopoguerra, con una crescita a doppia cifra. Le vendite di automobili ed elettrodomestici hanno toccato punte mai viste, il settore immobiliare è esploso, i brasiliani hanno scoperto che tra miserabili e miliardari si poteva essere ceto medio e dunque viaggiare, andare al ristorante, comprare borsette firmate, mandare i figli all’università. Il «Lulismo» è un ibrido socioeconomico che prova a mettere insieme la pace del welfare e i colori sgargianti del capitalismo. Per un lungo attimo, è sembrato che funzionasse. All’estero raccoglieva consensi, in Brasile il presidente non laureato, ex operaio, con un eloquio assai poco distinto e la zeppola piaceva a molti e molti avevano deciso di farselo piacere, soprattutto quando, all’apice del potere, Lula ha segnato due strepitosi gol consecutivi: portare in Brasile i Mondiali e le Olimpiadi.
Gran parte del successo politico di Lula risiede nella sua biografia, uno storytelling, come si dice oggi, così simile a quello di milioni di brasiliani e ampiamente utilizzato nella comunicazione della sua immagine. Nato nelle terre aride del Pernambuco, quelle delle Vidas secas del romanzo di Graciliano Ramos, Luiz Inácio da Silva è un figlio della miseria. Ancora bambino, emigra con la madre e i sei fratelli a bordo di uno dei camion chiamati pau-de-arara (trespoli per pappagalli) verso la regione industriale di São Paulo, in cerca di lavoro e fortuna. Il padre, emigrato anni prima, si era fatto una seconda famiglia. Nel tempo, Lula non ha mai perso occasione di definire sua madre «un’eroina». Da ragazzo fa il lustrascarpe, vende noccioline per strada, tifa Corinthians e sogna di diventare calciatore. Ma le sue capacità (era un’ala destra scarsa) non glielo consentono. Va a lavorare come operaio metallurgico e in fabbrica si dedica all’attività
sindacale, iscrivendosi proprio alla sede di São Bernardo do Campo, la stessa da cui sabato ha salutato i suoi sostenitori. Si sposa a 24 anni con un’altra operaia. Ma la moglie si ammala di epatite durante l’ottavo mese di gravidanza. Muore, durante un parto cesareo d’urgenza, assieme al figlio che aspettava. Il giovane vedovo, che allora non veniva ancora chiamato Lula ma Taturana (bruco) per via di un paio di baffi neri e folti, si risposerà poi con Marisa Letícia Rocco Casa, origini italiane, vedova anche lei (di un tassista, ucciso per strada da un rapinatore), una ragazza qualunque destinata a diventare Primeira Dama, First Lady, dopo opportuni cambiamenti di look e ritocchi chirurgici. Insieme hanno avuto tre figli, in più Lula ha adottato il primogenito di Marisa. Nonostante tradimenti e pettegolezzi (c’è anche una figlia nata fuori del matrimonio da una relazione dell’ex presidente con una giornalista), i due sono rimasti insieme fino alla morte di lei, avvenuta nel febbraio di un anno fa. Marisa è stata il motore dell’ambizione del marito. Ospitava in casa le riunioni sindacali clandestine al tempo della dittatura militare ed era già la moglie di Lula quando nel 1980, al termine di un lunghissimo sciopero operaio, fu arrestato e messo in prigione per un mese dalla polizia politica. A quei tempi, Lula aveva i capelli ancora tutti neri e una barba folta, l’aria di un Mangiafuoco fiero e feroce. Oggi, a 72 anni, le guance come un soufflé sgonfiato e le occhiaie profonde, una maglietta blu che gli tira sulla pancia, Lula è finito in prigione con addosso il carico pesante di gravi accuse di corruzione di un’intera classe politica, a partire dallo scandalo del 2004, quando un’inchiesta giornalistica fece emergere la questione del mensalão, uno stipendio extra ai deputati di tutti i partiti del Congresso perché votassero certe leggi e non altre. Più avanti, è scoppiato il caso Petrobras: l’impresa petrolifera statale funzionava da cassaforte per il PT e per i suoi alleati, finanziando campagne elettorali, il mensalão e molto altro. Infine, l’ex presidente è stato accusato di favorire gli affari dei figli, di avvantaggiarsi illecitamente, di ricevere regali che non avrebbe dovuto ricevere. Tra questi ultimi, un appartamento al mare del valore di circa un milione di euro, corpo del reato alla base della condanna cui risale l’arresto. Le prove non sono certo schiaccianti perché si basano sulla dichiarazione di un «pentito» dell’inchiesta Lava Jato che ha visto la sua pena più che dimezzata nel momento in cui ha raccontato di avere regalato il famigerato appartamento all’ex presidente.
Lula si dichiara innocente, può fare ancora un ricorso ma è molto probabile che, qualunque cosa succeda, non riuscirà a candidarsi alle prossime elezioni. Può diventare – lo è già – un eroe per i suoi sostenitori, ma per tutti gli altri la sola idea di Lula in galera è un trionfo, è avere finalmente intrappolato il demonio causa di tutti i mali del Brasile, è la fine dell’epoca in cui dominava O mecanismo, come lo definisce l’omonima serie di Netflix che racconta gli scandali a partire dall’inchiesta Lava Jato, un po’ nello stile del nostro 1992 su Tangentopoli. Purtroppo, come insegna ciò che è accaduto in Italia, l’arresto di uno o molti uomini di potere difficilmente cambia in profondità la cultura di un Paese clientelare e corrotto, figuriamoci di un Paese immenso e diseguale, con un’economia ancora protezionista, con un sistema politico e amministrativo bizantino. Il dopo Lula è appena iniziato ma c’è da chiedersi: davvero amanhã, domani, per il Brasile, sarà un altro giorno?