Meglio mettersi al lavoro
A pochi giorni dalla tragedia di Giada De Filippo, suicida dopo aver lasciato l’università, e dai nuovi dati sul numero dei laureati in Italia (siamo penultimi in Europa), un esperto ci spiega perché non finiamo gli studi
— Analfabeti funzionali in Italia: 11 milioni (27,9% della popolazione). Di cui diplomati: 20,9%. Laureati: 4,1% Indagine Piaac promossa dall’Ocse
P er festeggiarla erano state preparate bomboniere e regali, prenotato il ristorante e mandati inviti per il pranzo. Il 9 aprile, lo stesso giorno in cui aveva detto a familiari e amici che si sarebbe laureata in Farmacia, Giada De Filippo si è invece tolta la vita lanciandosi dal tetto dell’Università Federico II di Napoli. La ventiseienne originaria di Sesto Campano, in provincia di Isernia, durante i primi tre anni d’iscrizione alla facoltà non aveva mai dato esami. Quest’anno, non aveva neanche pagato la retta. La storia di Giada, per quanto dolorosa ed estrema, riflette lo stato di crisi vissuto da molti studenti italiani, incapaci di completare il percorso universitario e spesso poco sicuri che ne valga comunque la pena. I laureati nella fascia di età tra i 25 e 34 anni, secondo gli ultimi dati Eurostat, sono il 26,4% del totale contro una media europea del 38,8% (peggio di noi fanno solo i romeni). Quasi un terzo delle matricole, spiega invece Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano e coordinatore del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo (appena uscito per Il Mulino), abbandona gli studi dopo qualche anno. Ma perché sono così tanti quelli che non riescono ad arrivare all’agognato pezzo di carta? «I motivi sono diversi. Il principale è la carenza di orientamento mirato e personalizzato durante gli ultimi anni della scuola secondaria. I giovani italiani sono meno informati rispetto all’offerta formativa universitaria e agli sbocchi lavorativi che offre. Così molti si perdono, molti affermano che tornando indietro farebbero una scelta differente, molti dopo la laurea si trovano a fare un lavoro poco coerente con il proprio titolo di studio. Pesa anche il minor investimento in borse di studio e il fatto che molti si iscrivono all’università perché non trovano lavoro e la lasciano appena lo trovano. Di conseguenza, chi meno si iscrive all’università e chi abbandona di più sono soprattutto i giovani delle classi sociali medio-basse». La laurea, sembra di capire, non viene più vista come un investimento: perché da noi è così diffusa l’idea che «non serve a niente»? «Non è vero che non serve: i dati però mostrano come il suo rendimento, in termini di tasso di occupazione e remunerazioni, in Italia arriva più tardi. La condizione occupazionale di un laureato under 30 non è migliore di quella di un diplomato, ma con il tempo l’essere laureato fa la differenza aumentando le opportunità nel corso della vita. Questo diventerà ancora più vero nei prossimi anni, con l’impatto dell’automazione che ridurrà i lavori standard, soprattutto quelli manuali e ripetitivi». A chi si è bloccato e non riesce ad andare avanti o pensa di abbandonare, lei che cosa direbbe? «Consiglierei di riflettere con attenzione. C’è un costo dell’abbandono rappresentato dal tempo perduto, e c’è un costo nel proseguire se la strada porta davvero fuori rotta rispetto alle proprie vere aspirazioni. Va valutato quale dei due prevale, con molta onestà soprattutto nei confronti di se stessi. Tenendo conto che non esiste una regola che vale per tutti».