Sapor di Giappone
Le mille anime del tofu, la loro idea di cucina italiana e di una folle bagna cauda, un tè nel ryokan di Mishima. Perdersi a KYOTO con il regista in missione flâneur
Chi mi conosce sa che la mia vera passione è la gastronomia e con essa l’essere flâneur, il perdersi dietro il senso del sapore e i suoi luoghi. Da questo numero inizio a raccontarvi il mio errare per i luoghi che risvegliano in me conoscenza e gusto in giro per il mondo. Come quel giorno a Kyoto, capitale per mille anni, risparmiata dalle bombe della Seconda guerra mondiale, mentre mi perdo nel quartiere Shin Monzen Dori dove stupendi negozi antiquari sono rimasti nel fermo immagine di cinquant’anni fa e dove i pali della luce si intrecciano con i loro fili come nel Cimitero del sole di Oshima. E la ricerca diventa curiosità per questa arte squisitamente giapponese della perfezione, una ossessione fatta di tradizione, cultura, memoria ed esperimenti. Sulle rive del fiume Kamo per esempio trovo un’antica locanda, Tousuiro, che serve solo tofu: l’idea del tofu come parte che possa realizzare il tutto di un pasto, dallo yuba, velo di tofu cagliato (come quando lasciavamo raffreddare il latte da bimbi e si formava la pellicola, do you remember?), al tofu cremoso, tofu duro, tofu fritto e tofu dolce. Nessuna di queste declinazioni ripeteva l’altra, tutte avvolgevano il palato e dicono di questo essere giapponesi, il focalizzarsi con forza su un’idea e renderla materiale. Stesso atteggiamento, ma decisamente eccentrico dello chef Uesaka, un bell’uomo non ancora trentenne e dal sorriso disarmante che dirige il ristorante italiano migliore che potete trovare in Giappone, Ti voglio bene o t.v.b. come preferiscono chiamarlo, con gesto adolescenziale della sigla da messaggino. Chef Uesaka ha vissuto e lavorato in Italia diversi anni, è stato nelle cucine di alcuni importanti ristoranti italiani e parla solo giapponese e un bellissimo italiano spezzettato dalla timidezza e dalla deferenza tipiche del Sol Levante.
T.v.b. cerca della cucina italiana l’Idea che va a braccetto con la sensazione: come se in ogni piatto servito ci fosse il desiderio di offrire l’astrazione di cosa uno chef giapponese pensa sia il gusto italiano a tavola. La cosa sconcertante ma anche esaltante è però che il risultato è reale, per nulla astratto o astruso. Che bella cosa trovarsi lontanissimi da casa e trovare in una folle bagna cauda fatta di gelatine trasparenti e pezzi sparsi di verdure irriconoscibili la memoria precisissima della forma e del sapore di questa gloria piemontese, oppure per me siciliano sentirmi improvvisamente in mezzo alla campagna trapanese con uno spaghetto alle pesche che riproduce ciò che Uesaka ha portato con sé in Giappone del nostro senso dell’agrodolce. E ancora sorpresa su sorpresa tornare in albergo, l’Hiiragiya, in realtà un ryokan, le antiche case che ospitavano i viandanti, e avere proposto un tè nella stanza di Mishima rimasta sempre uguale da quando la leggenda ci viveva cinquant’anni fa e concludere malinconico la giornata visitando uno per uno i mille templi di Kyoto aperti sempre. In questa magica notte tiepida mi invade un misticismo ineffabile al mio occhio italo-algerino e laico… Ma questa è un’altra storia.