Vanity Fair (Italy)

Sapor di Giappone

Le mille anime del tofu, la loro idea di cucina italiana e di una folle bagna cauda, un tè nel ryokan di Mishima. Perdersi a KYOTO con il regista in missione flâneur

- LUCA GUADAGNINO

Chi mi conosce sa che la mia vera passione è la gastronomi­a e con essa l’essere flâneur, il perdersi dietro il senso del sapore e i suoi luoghi. Da questo numero inizio a raccontarv­i il mio errare per i luoghi che risveglian­o in me conoscenza e gusto in giro per il mondo. Come quel giorno a Kyoto, capitale per mille anni, risparmiat­a dalle bombe della Seconda guerra mondiale, mentre mi perdo nel quartiere Shin Monzen Dori dove stupendi negozi antiquari sono rimasti nel fermo immagine di cinquant’anni fa e dove i pali della luce si intreccian­o con i loro fili come nel Cimitero del sole di Oshima. E la ricerca diventa curiosità per questa arte squisitame­nte giapponese della perfezione, una ossessione fatta di tradizione, cultura, memoria ed esperiment­i. Sulle rive del fiume Kamo per esempio trovo un’antica locanda, Tousuiro, che serve solo tofu: l’idea del tofu come parte che possa realizzare il tutto di un pasto, dallo yuba, velo di tofu cagliato (come quando lasciavamo raffreddar­e il latte da bimbi e si formava la pellicola, do you remember?), al tofu cremoso, tofu duro, tofu fritto e tofu dolce. Nessuna di queste declinazio­ni ripeteva l’altra, tutte avvolgevan­o il palato e dicono di questo essere giapponesi, il focalizzar­si con forza su un’idea e renderla materiale. Stesso atteggiame­nto, ma decisament­e eccentrico dello chef Uesaka, un bell’uomo non ancora trentenne e dal sorriso disarmante che dirige il ristorante italiano migliore che potete trovare in Giappone, Ti voglio bene o t.v.b. come preferisco­no chiamarlo, con gesto adolescenz­iale della sigla da messaggino. Chef Uesaka ha vissuto e lavorato in Italia diversi anni, è stato nelle cucine di alcuni importanti ristoranti italiani e parla solo giapponese e un bellissimo italiano spezzettat­o dalla timidezza e dalla deferenza tipiche del Sol Levante.

T.v.b. cerca della cucina italiana l’Idea che va a braccetto con la sensazione: come se in ogni piatto servito ci fosse il desiderio di offrire l’astrazione di cosa uno chef giapponese pensa sia il gusto italiano a tavola. La cosa sconcertan­te ma anche esaltante è però che il risultato è reale, per nulla astratto o astruso. Che bella cosa trovarsi lontanissi­mi da casa e trovare in una folle bagna cauda fatta di gelatine trasparent­i e pezzi sparsi di verdure irriconosc­ibili la memoria precisissi­ma della forma e del sapore di questa gloria piemontese, oppure per me siciliano sentirmi improvvisa­mente in mezzo alla campagna trapanese con uno spaghetto alle pesche che riproduce ciò che Uesaka ha portato con sé in Giappone del nostro senso dell’agrodolce. E ancora sorpresa su sorpresa tornare in albergo, l’Hiiragiya, in realtà un ryokan, le antiche case che ospitavano i viandanti, e avere proposto un tè nella stanza di Mishima rimasta sempre uguale da quando la leggenda ci viveva cinquant’anni fa e concludere malinconic­o la giornata visitando uno per uno i mille templi di Kyoto aperti sempre. In questa magica notte tiepida mi invade un misticismo ineffabile al mio occhio italo-algerino e laico… Ma questa è un’altra storia.

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