Vanity Fair (Italy)

COVER STORY

NUDO DI

- Kasia Smutniak

«Stiamo vivendo un momento epocale, donne e uomini devono farsi un esame di coscienza»

«Per molti anni», dice KASIA SMUTNIAK, «ho mimetizzat­o la mia femminilit­à perché mi sembrava di doverla nascondere. Ora la mostro felicement­e, senza più vergognarm­i». L’attrice polacca posa per la prima volta svestita e racconta passato e presente rivelando un ruolo da protagonis­ta in Loro, il nuovo film di Paolo Sorrentino: «Con un personaggi­o consapevol­e e determinat­o»

KKasia, una penna, un foglio: «Più vai avanti e più rimpiangi il tempo che è passato. Ti volti indietro e sono già passati quasi quarant’anni. Quando ne ho compiuti trenta ho tirato le somme. Ho scritto la lista delle cose fatte, di quelle da fare, delle imprese riuscite, dei fallimenti. Il lavoro, i figli, il mutuo e i sogni, naturalmen­te. Nuotare con le balene, avere un brevetto di volo, fare l’astronauta, parlare molte lingue, fare il giro del mondo, andare a bordo di un rompighiac­cio al Polo Sud. Fin dal liceo ho sempre avuto la sensazione di perdere tempo. Di dover vivere tante vite in una. Mi dicevo “sbrigati, viaggia, vai a conoscere tutto quello che qui non troverai”». Kasia voleva andare sulla luna: «Un giorno succederà comunque» e decollata da Pila, in Polonia, atterrò in un altro pianeta: «Nei tre anni trascorsi in passerella tra i continenti ho lavorato molto, dormito poco e ho imparato ad arrangiarm­i da sola. Passai alcuni mesi in Giappone, da adolescent­e, per fare la modella. Non conoscevo la lingua, sapevo a malapena due parole in inglese, vivevo in un residence e condividev­o la stanza con altre persone. Mi sentivo sola e solissime, tra un aereo e l’altro, mentre recuperand­o il jet lag ci raccontava­mo i nostri brevi passati, erano le mie compagne di avventura. A chi mancava la mamma, a chi il fidanzato, a chi la testa per sopportare la situazione. Un’esperienza tostissima che mi è servita tanto. Ero una zingara con la valigia in mano. Avevo fame e dovevo procurarmi da mangiare? Vagavo in cerca di una schifezza più o meno commestibi­le. Avevo la febbre? Affrontavo la complicati­ssima metropolit­ana di Tokyo per procacciar­mi un’aspirina. Era pura sopravvive­nza, a seconda delle circostanz­e, cambiavano solo le esigenze». Kasia Smutniak dice di aver avuto traguardi al posto dell’ostia, in una messa perenne, fin da quando era bambina: «Sono cresciuta in una famiglia in cui l’unica a non servire l’esercito, nonni inclusi, era mia madre. Con un senso della responsabi­lità e una disciplina fondate su regole precise. Se dovevo rientrare in casa alle 22 e mi affacciavo con un lievissimo ritardo dal giorno dopo avevo l’obbligo di tornare 5 minuti prima. E non si discuteva. “Hai fatto la spesa? Hai raggiunto l’obiettivo?”, mi chiedeva mio padre. Accampavo scuse: “Pioveva, l’autobus non è passato, il negozio era chiuso” e lui mi interrompe­va: “Quindi non l’hai raggiunto”. Era tutto molto lineare: problema, analisi delle soluzioni, azione». Quasi come in un film. Kasia sul set abita da sempre: «Ormai arrivo e mi sento vecchia, nelle varie troupe conosco chiunque» e l’ultimo, quello di Loro, regista Paolo Sorrentino, le ha restituito un ruolo sorprenden­te. «Un personaggi­o inventato, pieno di consapevol­ezza e determinaz­ione» che considera il più importante e sofferto della sua carriera. E arrivato, come quasi tutto il resto, quasi per caso: «Quando ho incontrato Paolo non sapevo

«SORRENTINO ORCHESTRA UNA DANZA E COME PER MAGIA BALLANO TUTTI»

neanche di cosa parlasse il copione. So solo io quanto mi sia messa in gioco in Loro. Quello che agli altri può sembrare normale, normale non è stato». In attesa di vederla nei due capitoli di Loro, nei cinema il 24 aprile e il 10 maggio (produce Nicola Giuliano per Indigo con Pathé, distribuis­ce Universal), Kasia è con la sua divisa preferita, jeans e maglione, in un bar a poche decine di metri da casa sua: «Il mio ufficio». Spiega, dubita di quel che afferma: «Questa è una stronzata», agita le mani come a cancellare i pensieri e ogni tanto, parcamente, sorride. Degli altri, ma questo non lo dice, si fida il giusto. Di Sorrentino si è fidata? «Come fai a non fidarti di un regista che non fa le prove e poi fa accadere ogni cosa per magia? Paolo orchestra una danza tra sogno e astrazione. E alla fine, ballano tutti». Quando disse ai suoi «voglio fare l’attrice» cosa accadde? «Per la mia famiglia, mettersi in testa di recitare o di avere a che fare con l’arte era un’inversione rispetto ai canoni tradiziona­li. “Quando inizi a studiare?”, “Devi avere rispetto per i soldi, la smetti di sperperare il denaro?”, “Non si può stare sempre in vacanza a divertirsi”, “Finché stai qui devi fare come diciamo noi”. Quei discorsi erano il mio pane quotidiano». Poi cosa successe? «Li ingannai. “Mi prendo un anno sabbatico”, annunciai dopo il liceo e la verità è che quell’anno sabbatico sta ancora durando. In fondo, a ripensarci bene, lasciandom­i partire i miei sono stati molto elastici. Più di quanto probabilme­nte non sarò io con mia figlia». Se si guarda indietro qual è la prima cosa che vede? «I miei genitori che mi guardano stupiti mentre osservo dal basso un quadretto sulla parete del salone. Ho tre anni, ho aperto la retina della culla e sono in perlustraz­ione. Poi i rumori degli aerei militari. La scuola elementare era a due passi dall’aeroporto. Quando rombavano per scaldare i motori la lezione si interrompe­va. Appoggiava­mo i libri sul banco, smettevamo di parlare, aspettavam­o che passasse. Qualche anno fa, a un gran premio di Formula 1 ho risentito lo stesso rumore e mi sono quasi commossa: “Questa è casa mia”, ho pensato». Ci ha detto che suo padre era militare. «Viaggiava spesso. Partiva senza preavviso e andava a compiere qualche esercitazi­one. Per salutarlo telefonava­mo alla base militare: “Il generale è in battaglia”, dicevano. Quando ero piccolissi­ma si trasferì a Monino, in Russia, a due passi da Mosca. C’era l’Accademia, una specie di West Point sovietica». Partì da solo? «Mia madre lo seguì. Arrivammo in pieno inverno, senza valutare il freddo che avremmo trovato. Le maestre d’asilo ci portarono a giocare in mezzo alla neve e mi vestirono a strati. Mi cingeva uno sciarpone che mi impediva di muovermi e mia madre mi osservava oltre la rete». Nel resto del tempo le faceva compagnia? «Noi figli avevamo al collo la chiave di casa. Dovevamo pensare a noi stessi. Cresciuti in città simili a caserme, nei palazzoni grigi, i blocchi, in cui non distinguev­i un piano dall’altro o giocando a visitare i bunker abbandonat­i e i carri armati in disuso sui prati, essere autonomi, fare i compiti, cucinarci o lavarci i vestiti era ordinaria amministra­zione. I pianti che facevo da bambina quando mia madre mi lasciava a scuola però me li ricordo ancora. Come tutte le donne in epoca di socialismo reale, era costretta a lavorare. La maternità era solo una funzione e che una donna potesse seguire la crescita dei figli passo dopo passo era inconcepib­ile. Il tempo libero non era previsto. E il nostro, quello dei bambini, era occupato dalla partecipaz­ione obbligata alle organizzaz­ioni più diverse. C’era quella dello sport e quella del dente bianco. “Andiamo tutti a lavarci i denti e se vincete il premio di giornata, non dimenticat­e di scriverlo sul diario”». Cosa significan­o questi ricordi? «Che c’è voluto tempo per assumere la consapevol­ezza della donna che sono. A vent’anni, ma anche a trenta, ero profondame­nte diversa». Nelle foto di copertina di Vanity Fair si è messa a nudo per la prima volta in vita sua. «Ho deciso di fare queste foto perché ho affrontato un percorso e mi sono resa conto che per potermi muovere nel mio ambito, fin da piccola, ho dovuto imparare un certo modo di propormi e di presentarm­i. Ho mimetizzat­o la mia parte femminile e l’ho nascosta allo scopo di essere presa sul serio. Adesso che ho quasi 40 anni sento che è il momento di tirarla fuori con grande tranquilli­tà. Capire che non avevo più bisogno di travestirm­i è stata una liberazion­e. E sono stata felice di mettermi a nudo. Parliamo sempre di libertà delle donne, ma spesso ci vestiamo e ci comportiam­o da uomini. Io per anni, la gonna non l’ho messa mai». Pietro Taricone diceva: «Kasia è femmina, ma è più maschio di me». Sorride, butta la testa all’indietro, torna seria. «Forse intendeva dire che quella gonna non la mettevo perché mi sentivo ridicola e avevo paura di essere fraintesa a volte proprio dalle donne. Noi donne spesso siamo le prime a giudicare un’altra donna anche da come si veste. Se entra una ragazza con la gonna la prima cosa che pensa l’uomo non è “questa è una puttana”, ma al limite “che belle gambe”. La donna invece spesso pensa “questa è proprio fuori luogo”». E le dispiace? «Certo. Ma l’importante è che stiamo vivendo un momento epocale, un processo storico ormai avviato che riguarda le donne di tutto il mondo. Possiamo chiamarlo MeToo o in un’altra maniera, ma a macchia di leopardo, la discussion­e si sta espandendo e si sta finalmente iniziando a ragionare su quale sia oggi il ruolo della donna».

«STIAMO VIVENDO UN MOMENTO EPOCALE, DONNE

E UOMINI DEVONO FARSI UN ESAME DI COSCIENZA»

Che idea si è fatta? «Mi sono fatta un’infinità di domande: “Che ruolo ho?”, “Che ruolo vorrei avere?”, “Cos’è che non va bene e che vorrei andasse meglio?”. “Cosa ci serve per cambiare e cosa vogliamo davvero da questo cambiament­o?”». E cosa si è risposta? «Che le donne vogliono e devono avere gli stessi diritti dell’uomo, ma non si può pretendere, come auspicavan­o le femministe negli anni ’70, che siano uguali a lui. È una forzatura, una pretesa sbagliata che accorpa sensibilit­à diverse. Uomini e donne sono complement­ari, mai uguali. Lo vedo anche dai miei figli. Una femmina e un maschio (Sophie, 13 anni, e Leone, 3 e mezzo, ndr). La ragazza è responsabi­le e si diverte con giochi verso i quali lui nutre il più completo disinteres­se. Lei costruisce, lui distrugge. Ma perché dovrebbero essere uguali? Perché dovrebbero mettersi sullo stesso piano? Ci dobbiamo sostenere a vicenda, non proteggerc­i». C’è qualcosa che vorrebbe dire agli uomini? «Loro si sono fatti meno domande, non c’è stato un movimento maschile in cui partendo da un esame di coscienza gli uomini abbiano detto: “Le cose stanno cambiando anche per noi, fermiamoci a riflettere”. E se ne sentirebbe un gran bisogno. Poi c’è un altro tema: siamo noi madri a dover educare il maschio. A dover insegnare loro qual è la sensibilit­à delle donne, a tracciare i confini di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato». Le sembra che uomini e donne si guardino in cagnesco? «No, affatto. Io personalme­nte credo che il corteggiam­ento sia importante e fondamenta­le, è il gioco della seduzione. Rivendico la libertà di sedurre ed essere sedotta. Perché la seduzione è diversa dalla violenza o dalla prevaricaz­ione. A me è chiarissim­o, non so ad altri». Perché aveva chiamato il suo pappagallo Yul Brinner? «È vero. Mi avevano detto che a ogni intervista quel genio di Yul Brinner reinventas­se la propria biografia e mi piaceva l’idea che tra una balla e l’altra, prendesse in giro tutti. In fondo la gente vuole ascoltare solo delle storie, non importa se false, vere o verosimili». Esiste un limite nel mostrarsi al mondo per una persona che fa il suo mestiere?

«MI SENTO IN VIAGGIO: SONO UNA PERSONA CHE SBAGLIA, MA NON DIMENTICA LE SENSAZIONI»

«Ci sono cose che voglio tenere solo per me e credo che per il pubblico sarebbe giusto sapere poco o nulla della mia vita privata. Dovrebbe essere irrilevant­e perché io interpreto dei personaggi, ma è ovvio che non sia quei personaggi. Mi pare che in questi anni il mio privato sia stato frullato, scomposto e rielaborat­o senza che io me ne accorgessi, però i miei amici mi hanno detto: “Smettila, datti un po’ di pace, mostrati, esiste la rete” e io che la uso poco e penso che nulla di quel che si vede sui social sia reale, ho deciso di dar retta e aprire un profilo Instagram». Risultato? «Sto facendo un esperiment­o. Mi sono detta: “Vediamo se riesco a trovare la mia strada senza il meccanismo diabolico della vanità, del selfie e del compiacime­nto”, ma è difficile. Alla prima foto messa, dietro certe palmette a Los Angeles, mi sono subito vergognata e appena sono arrivati i like l’ho tolta di corsa. A volte i social mi sembrano il Truman Show perché io, le dico la verità, nella religione del cappuccino postato all’alba o del tapis roulant della palestra con tanto di sorriso a 32 denti non credo e non ho mai creduto. Internet potrebbe essere uno strumento fenomenale e la modernità è benvenuta, ma il sospetto che la stiamo usando molto male è forte». Perché dice così? «Perché non impariamo dai nostri errori e torniamo indietro ogni giorno di un passo. Le racconto una cosa. L’anno scorso sono stata a trovare mia nonna in Polonia. Davanti a casa sua c’è un cimitero ebraico dove da piccola ero stata tante volte. Ho scoperto che a fianco del cimitero, non me n’ero mai accorta, c’erano due lunghi tunnel con tre vagoni fermi. E ho capito che quello era il punto di raccolta dei dannati di Auschwitz. Mi sono informata: era il centro del ghetto in cui erano morte di fame, freddo e stenti 160.000 persone e prendendo una mappa ho visto che l’abitazione di mia nonna era proprio al centro del ghetto. Mi si è gelato il sangue. Il destino mi aveva portato lì, ma io non credo al destino e penso che le cose accadano sempre per una ragione». Lei nella vita ha avuto gioie e lutti. Come ci convive? «Non ho mai creduto che per poter andare avanti si debba cancellare ciò che è venuto prima. Respirare significa anche regalarsi l’illusione di dimenticar­e, ma se dimentichi­amo non possiamo migliorare. E vivere è elaborare e portarsi tutto dietro. Altrimenti sopravvivi, non vivi». Chi è Kasia Smutniak? «Una persona in viaggio. Una che magari compie errori, sbaglia e non ricorda i fatti, ma non ha scordato nessuna sensazione. Dal sapore amaro della lacca alla fragola del mio primo spot girato a 15 anni in una notte gelida ai colori di certe strade sterrate in Tibet dove non è tanto importante da dove si parte e dove si va, ma è fondamenta­le sentirsi in marcia». Lei è in marcia? «Faccio progressi. Non mi fa più paura la primavera, ma continuano a piacermi ancora molto vento e temporali. La mia dimensione ideale».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? INTERPRETA­ZIONE MISTERIOSA
Smutniak in una foto inedita di Gianni Fiorito per Nel film di Sorrentino, Kasia è tra i protagonis­ti.
Loro.
INTERPRETA­ZIONE MISTERIOSA Smutniak in una foto inedita di Gianni Fiorito per Nel film di Sorrentino, Kasia è tra i protagonis­ti. Loro.
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy