Vanity Fair (Italy)

FORTUNATO CERLINO DI PADRE IN FIGLIA

- di SILVIA NUCINI foto MICHELE DE PUNZIO

Quando è nata Delfina, la sua bambina, Fortunato Cerlino ha capito che era arrivato il tempo di fare i conti con la propria infanzia, con una famiglia dove mancavano il lavoro e le parole, e dove si viveva circondati da un mondo di violenza. Così, ha scritto un libro «non autobiogra­fico» ma autentico. Che, timoroso, presenta ai genitori come una parmigiana di melanzane

era una volta un bambino che viveva CÕ a Pianura, un quartiere di Napoli sfregiato dal terremoto e dalla violenza. Il bambino scriveva quello che vedeva, sentiva e sognava su un quaderno di cartapagli­a. Ma siccome questa non è una favola, nemmeno quello che scriveva lo era. C’era una volta un uomo, anzi un attore, famoso, che, a ogni trasloco della sua vita, si portava dietro una cassapanca, sul cui fondo c’era un quaderno, il quaderno del bambino. Durante una delle tante interviste, l’attore parlò di quel quaderno, gli venne la curiosità di ritrovare quelle parole, e il ragazzino che le aveva scritte. Non fu difficile perché si chiamavano entrambi Fortunato Cerlino. È nato così Se vuoi vivere felice, il libro che l’attore non vuole sia definito la sua autobiogra­fia: «L’opera artistica è sempre un tradimento della realtà, perché c’è sempre il punto di vista. E perché certe cose sono state davvero inventate, sia da me adulto sia da me bambino». Ma – concede – «se non è tutto vero, almeno è tutto autentico. Ho preso quelle ottanta pagine che avevo scritto a 10 anni e le ho dipanate e tradotte, ma senza tradirne le emozioni». Quello che ne è uscito è una storia forte, a tratti dura «ma che so essere comune a molti miei coetanei cresciuti nella periferia, non solo di Napoli», la storia di una famiglia contadina: un padre senza lavoro e senza parole, una madre con una rabbia nascosta, bambini che crescono con i loro piccoli sogni e luoghi – il concorso canoro, l’ipermercat­o al sabato, la sala giochi – tutti uniti da un affetto complicato e dalla fatica. Come è stato ritrovare quel Fortunato bambino? «Un’esperienza molto tenera. Perché l’ho fatto nel momento in cui, la scorsa estate, sono diventato padre di Delfina. E sono stato pronto ad accogliere, insieme a mia figlia, anche il bambino che ero stato». I suoi genitori nel libro sono raccontati anche nei loro aspetti più duri, a tratti violenti. Hanno letto le bozze? «No, ho preferito che non le vedessero». Come pensa reagiranno? «Penso due cose. Da Fortunato figlio qualche problema me lo sono posto. Ho raccontato le cose senza censure, ma anche cercando di contestual­izzare il tutto. Non lo dico come scusante, ma consapevol­e che la violenza è sempre figlia della paura. Poi c’è il Fortunato narratore. E io penso che il narratore abbia sempre il dovere di dire quello che vede, con molta onestà, e di non fare sconti a nessuno, se vuole che quello che racconta sia utile. Per questo mi sono preso la responsabi­lità di mettere nel libro anche delle cose forti». Ha paura possano non comprender­e? «Ne ho il terrore; e non so se sarò in grado di spiegare loro le cose, come sto facendo con lei. Ma spero mi sorprendan­o. Nelle famiglie proletarie come la mia spesso il dialogo viene sostituito dal simbolo. Significa che tua madre, per dirti che ti vuole bene, ti fa trovare la parmigiana di melanzane nel piatto. E io faccio lo stesso con loro: non cucino, ma do loro i miei personaggi, i ritagli delle mie interviste, le foto. Darò loro il libro, spero che da lì possa partire un dialogo. O possa fare da specchio: consentire, a tutti noi, di vederci». La violenza sembra essere ovunque nella sua infanzia. «Se non sei nato in determinat­i contesti, la violenza non la capisci. La violenza è, scusi

il gioco di parole, talmente violenta che la nascondi anche a te stesso. Io mi sono reso conto di certe cose che mi erano successe molti anni dopo. Penso che finché non si restituirà dignità alla gente che vive non solo nel Sud, ma anche nelle province del Nord, dando loro informazio­ne e cultura, non si saprà mai quanta violenza si respira in certi posti. Questo libro è anche un modo per illuminare una realtà che spesso sfugge a chi non vive in quei contesti». Dai tempi della sua infanzia a oggi, la situazione è cambiata? «Se mai è peggiorata. Nelle province di tutta Italia a molta gente è stata rubata la dignità, ed è il primo atto di violenza da cui scaturisco­no tutti gli altri. Il precariato è una parola dietro cui si nascondono vite senza sogni, progetti abbandonat­i, donne che rimandano l’idea di un figlio finché è troppo tardi. Quando la politica sociale non corrispond­e alla dignità dell’essere umano nasce la rabbia che vediamo. L’abbiamo seminata noi. La gente scivola senza accorgerse­ne». Però da quel mondo difficile della sua infanzia qualcosa l’ha tirata fuori. Che cosa? «Gli incontri. Dei miei, il primo e forse il più importante, è stato quello con la maestra Giulia, una donna speciale che il primo giorno di scuola aveva sistemato i banchi in modo che tutti i bambini si guardasser­o negli occhi e che è stata la persona che mi ha visto e mi ha fatto accorgere delle cose, mi ha fatto capire cosa avrei potuto desiderare. Molte delle persone che mi hanno dato una direzione, nella vita, sono state le donne. Nel bene e nel male». La maestra Giulia è stata anche la persona che le aveva detto che avrebbe dovuto cantare. «Sì, avevo un talento. E quando ho cominciato la carriera d’attore ho dovuto scegliere se dedicarmi alla recitazion­e o diventare un tenore». Perché ha scelto di fare l’attore? «Non lo so, forse per istinto». Ha mantenuto un rapporto stretto con la sua terra? «Strettissi­mo, però Napoli è difficile da vedere da vicino, e me ne devo allontanar­e per guardarla meglio. Ora abito a Roma e ho un rapporto più sano con la mia città natale». Essere stato don Pietro Savastano in Gomorra ha cambiato il modo in cui i napoletani la guardano? «Napoli viveva le soap opera, e ora le serie tv, come cose molto private e personali. Ai tempi di Anche i ricchi piangono c’era gente che chiamava i figli o il cane Luis Antonio e Mariana, per avere in casa un pezzo di soap. Con Gomorra noi siamo diventati parte della società partenopea e la gente ci parla e ci racconta la sua vita, come farebbe con degli amici. Ma essendo io stato Savastano, un personaggi­o molto duro, mi si avvicinano quasi con timore. E a me va bene perché sono una persona riservata». Quanto le rimarrà appiccicat­o don Savastano? «Quanto vorrà: io gli sono grato. Soprattutt­o adesso che riesco a interpreta­re anche personaggi molto diversi». Com’è essere padre? «Tutti mi dicevano che mi sarebbe cambiata la vita, io li ascoltavo e pensavo: vabbè. Poi è successo ed è stato molto più intenso di quanto mi raccontava­no: mi ha trasformat­o tutto. Ora faccio cose stupide e incredibil­i. Passo le giornate per farla sorridere: la settimana scorsa abbiamo giocato per un’ora con la carta dell’uovo di Pasqua. Delfina sta reinterpre­tando la mia realtà, tutte le cose che davo per scontate. Lei non conosce nulla e costringe anche me a riscoprire ogni cosa». Un figlio era nei suoi progetti da sempre? «Sia io che Antonella abbiamo avuto altre storie, ma non ci siamo mai trovati a fare questa scelta. La prima volta che l’ho vista ho capito che mi avrebbe capottato: è apparsa sulla porta della cucina di una casa di amici e ho sentito che c’era molto da dirsi. È la mamma e la compagna che sognavo. La osservo da quando è nata Delfina e la vedo improvvisa­mente passata da ragazza a madre: è cambiato anche il suo modo di prendere in mano le cose, lo fa da mamma. Le sue mani sono cambiate, il suo modo di guardare. Casa nostra è diventata una bolla: c’è un altro tempo, un altro spazio. L’altro giorno Delfina ha mangiato il formaggino… va bene, non voglio annoiarla». Vi siete trovati, quindi. «Volendo scomodare altri punti di vista sulla realtà possiamo parlare di destino». Lei ha un altro punto di vista, quindi? «L’argomento religioso mi interessa molto, e da sempre. Mi sono letto la Bibbia, il Corano, ho frequentat­o i Mormoni ed ero io a invitare a casa mia i Testimoni di Geova: prima due, poi quattro, poi sei. Poi non sono più venuti, peccato. Comunque io sono buddista da una decina d’anni, anzi per la precisione seguo l’insegnamen­to dello Dzogchen. Alla mia spirituali­tà sono sempre stati stretti i dogmatismi, e lo Dzogchen è un insegnamen­to diretto e senza proselitis­mi. Lo incontri se lo devi incontrare. A me è successo ascoltando un amico recitare un mantra piuttosto complesso, che dopo tre volte ricordavo anche io perfettame­nte e che mi era famigliare». Crede nelle vite precedenti? «Sì, e ho anche delle sensazioni. Ma non so se sono vere o solo desideri. Nel dubbio rimango nel qui e ora, che è importante».

«SE NON SEI NATO IN QUEI CONTESTI, LA VIOLENZA NON LA CAPISCI, È COSÌ “VIOLENTA” CHE LA NASCONDI ANCHE A TE STESSO»

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Sopra, Cerlino nei panni di don Pietro Savastano nella serie Gomorra, con Salvatore Esposito, 32 anni, nel ruolo di Genny Savastano.
A sinistra, è l’imperatore Vespasiano in Britannia, che ha debuttato a gennaio su Sky Atlantic.
NAPOLI OGGI, ROMA IERI Sopra, Cerlino nei panni di don Pietro Savastano nella serie Gomorra, con Salvatore Esposito, 32 anni, nel ruolo di Genny Savastano. A sinistra, è l’imperatore Vespasiano in Britannia, che ha debuttato a gennaio su Sky Atlantic.
 ??  ?? DI TUTTO DI PIÙ Fortunato Cerlino, 46 anni, è autore di Se vuoi vivere felice, dal 24 aprile in libreria. Ha inoltre realizzato un documentar­io per Sky Arte sullo scrittore Jean-Claude Izzo, e prepara il suo debutto alla regia con una storia ispirata...
DI TUTTO DI PIÙ Fortunato Cerlino, 46 anni, è autore di Se vuoi vivere felice, dal 24 aprile in libreria. Ha inoltre realizzato un documentar­io per Sky Arte sullo scrittore Jean-Claude Izzo, e prepara il suo debutto alla regia con una storia ispirata...
 ??  ?? C’ERA UN BAMBINO Il libro di Cerlino, pubblicato da Einaudi (pagg. 265, € 18,50), è ambientato nella periferia di Napoli – battezzata Far West dagli abitanti – negli anni ’80.
C’ERA UN BAMBINO Il libro di Cerlino, pubblicato da Einaudi (pagg. 265, € 18,50), è ambientato nella periferia di Napoli – battezzata Far West dagli abitanti – negli anni ’80.

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