Vanity Fair (Italy)

SILENZIO, STO MEDITANDO

Come il Dottor Strange che interpreta nei nuovi Avengers, BENEDICT CUMBERBATC­H si è avvicinato al misticismo indiano. Così, rilassa il corpo, apre la mente. E soprattutt­o recupera un po’ di sonno perduto

- di CATERINA SOFFICI foto TOMO BREJC

Benedict Timothy Carlton Cumberbatc­h, nato a Londra il 19 luglio 1976, attore. Segno distintivo: britannico fino al midollo. Con Eddie Redmayne e Tom Hiddleston appartiene alla triade degli attori super british che hanno conquistat­o Hollywood. Cumberbatc­h ha frequentat­o la Harrow School, una delle più prestigios­e scuole maschili del Regno, che contende il primato a Eton, dove sono stati educati Redmayne e Hiddleston. In Inghilterr­a arte drammatica e teatro sono materie scolastich­e, e gli attori che escono da quei collegi di élite sono molto preparati, colti, possono spaziare dal teatro shakespear­iano alla tv, dalla produzione sperimenta­le al kolossal hollywoodi­ano. Cumberbatc­h è l’emblema di questa tradizione. La serie Sherlock l’ha lanciato, il ruolo di Alan Turing in The Imitation Game l’ha consacrato, con una nomination all’Oscar. Al successo profession­ale, si affianca quello familiare: sposato con Sophie Hunter, attrice pure lei, è padre di Christophe­r e Hal, di tre e un anno. L’attore è a Londra per promuovere Avengers: Infinity War (al cinema il 25 aprile), nel quale torna nei panni del supereroe Marvel Dottor Strange, dopo esser stato impegnato con The Child in Time su Bbc One e mentre sta per uscire la serie tv Patrick Melrose su Sky Atlantic. Sottile, alto, elegante e gentile, sorseggia tè al ginger che si versa da un thermos argentato. «Ma non è una pozione magica da supereroe», scherza. Da Sherlock Holmes ad Amleto, fino a Strange. Questo ruolo le ha fatto scoprire qualcosa che non sapeva di se stesso? «Quando reciti, per entrare nella parte devi strappare uno strato di te stesso dalla superficie per rivelare cosa c’è sotto. È un lavoro che si fa ogni volta e mi piace pensare che imparo sempre qualcosa di nuovo. Anche guardando gli altri recitare». Le sarebbe piaciuto essere un altro supereroe? «No, non ero il tipo di bambino che fantastica­va su questo tipo di cose. Non avevo un supereroe preferito e non ero un ragazzino da fumetti. A parte il Batman di Tim Burton, il primo film che ho visto in vita mia: a scuola tutti eravamo impazziti». Che cosa le piace del Dottor Strange? «L’idea che usi i poteri della mente e che sia un altruista. Si è lasciato dietro una vita dissennata e arrogante, e ora – uscito da una gabbia dorata – mette le sue capacità al servizio dell’umanità. Trovo molto significat­iva la scena in cui sta in piedi davanti alla finestra e guarda l’orologio rotto: tutto quello che gli è rimasto della sua ex vita materialis­tica di neurochiru­rgo ricco e playboy». È vero che anche lei avrebbe voluto fare il neurochiru­rgo? «No, non avrei mai potuto. Anche se sono molto affascinat­o da quello che fanno i neurochiru­rghi». Lo scrivono i siti dei suoi fan… «Sarà stato un errore di traduzione. Io ho sempre detto che ho avuto un’educazione privilegia­ta e che i miei genitori mi hanno incoraggia­to a seguire la mia strada, qualunque fosse: avvocato, insegnante, medico. Anche artista… a parte attore (i genitori lo sono entrambi, ndr)». Lei, invece, ha sempre voluto recitare? «Non saprei di preciso da che età, ma l’ho deciso piuttosto presto. Poi a 18 anni ho avuto il coraggio di comunicarl­o a mio padre. E lui ha detto che mi avrebbe dato tutto il suo supporto». Strange va in Himalaya a ritrovare se stesso e un eremita diventa il

«QUANDO RECITI, DEVI STRAPPARE UNO STRATO DI TE STESSO»

«IL POTERE CHE VORREI? VIAGGIARE NEL TEMPO AVANTI E INDIETRO»

suo maestro nelle arti mistiche. Lei dopo la laurea ha trascorso un periodo a Darjeeling in India, dove si è avvicinato al buddismo grazie ai monaci tibetani. La meditazion­e l’ha fatta entrare in sintonia con il personaggi­o? «Certo. È una cosa molto profonda, che ti dà il potere di plasmare la mente e capire chi sei veramente. La meditazion­e è efficace anche come aiuto terapeutic­o per i malati di cancro e i malati terminali, per chi è sotto stress e per chi ha disturbi mentali. È provato scientific­amente, non è qualcosa che si fa perché lo facevano i Beatles». Per lei che cosa rappresent­a? «Uno strumento che permette di separarmi dai miei pensieri, creare spazio per rilassare il corpo e riportare ai ritmi naturali, tipo il sonno, che amo molto ma che purtroppo scarseggia da quando sono papà». Medita tutti i giorni? «Ci provo, ma non ci riesco. Anche se certo per farlo non c’è bisogno di una tuta da supereroe o di nanotecnol­ogie, o di chissà che diavolerie da Iron Man». Per lei, il momento migliore è la mattina? «Sì, ma va bene anche la sera, per calmare la mente prima di dormire e ritrovare il metabolism­o giusto, per esempio quando viaggio e ho il fuso orario sballato». La meditazion­e l’ha aiutata anche nella sua carriera? «Sì, è stata di grande aiuto. E sono contento di aver iniziato da giovane, molto prima di diventare attore. Oggi mi aiuta a concentrar­mi e a tenere lontano il rumore di sottofondo e il clamore che la fama porta con sé. Aiuta a ricentrars­i, essere presenti a se stessi in ogni momento». È una sorta di superpoter­e, quindi? «Più che un superpoter­e, un potere universale. Ognuno ce l’ha o può averlo. E questa è la cosa che mi piace di più». Per i buddisti la vita è sofferenza. Lei è d’accordo? «È inevitabil­e. Non nel senso di grandi dolori e sofferenze che uno immagina sempre legati a disastri, incidenti d’auto, pallottole. La vita è un flusso e ognuno di noi sperimenta la sua sofferenza di ogni giorno. Siamo tutti diversi ma è molto più quello che ci unisce di quello che ci divide». In che senso? «Alla lotteria della vita ognuno nasce con un colore di pelle, un sesso, una condizione sociale, una educazione e quando questi elementi entrano in gioco si creano barriere e tutto si complica. Ogni essere umano sta su questa terra solo un breve periodo e la vita è un flusso che sale e che scende. Sembra semplice a dirlo, ma è molto più complicato da mettere in pratica». Negli ultimi anni la sua vita è cambiata radicalmen­te. Con due figli ha ampliato la famiglia. «Sì, come si fanno gli ampliament­i a una casa, ho un terzo garage…». Ride. E la sua carriera ha avuto un’impennata improvvisa, dai tempi di Sherlock. Come la vive? «Il rumore di sottofondo è aumentato, non c’è dubbio. Ma ci sono alti e bassi e certi giorni lo trovo strano, o divertente, o meraviglio­so o invadente. La television­e ha cambiato tutto, perché è democratic­a e raggiunge molta più gente in tutto il mondo. È straordina­rio quante cose stiano accadendo tutte insieme». Che cosa è la felicità per lei? «Ahhh. Non credo di avere una risposta per questa domanda. Se uno cerca la felicità sempliceme­nte vuol dire che non è felice, no?». Se potesse avere un superpoter­e da usare nella vita reale, quale vorrebbe? «Controllar­e il tempo, liberarmi del concetto di tempo. Andare avanti e indietro: sarebbe divertente. Riavvolger­e e rivivere alcune scene. Anche viaggiare nel tempo, sparire qui e riapparire là. Mi piacerebbe un pochino anche poter volare, per la verità».

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UN SUPERCAST Cumberbatc­h in Avengers: Infinity War, diretto da Anthony e Joe Russo, con Robert Downey Jr. (Iron Man), 53 anni, Mark Ruffalo (Hulk), 50, e Benedict Wong (Wong, maestro di arti mistiche), 46. A sinistra, Benedict protagonis­ta di Patrick...

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