Vanity Fair (Italy)

MAGICA NANNY

Quando si tratta di sfide, l’attrice anglo-americana non teme nulla: ha rubato la scena a Tom Cruise, ha accettato di interpreta­re la super tata per antonomasi­a Mary Poppins dopo la mitica Julie Andrews. La sua strategia? Mai farsi sottopagar­e. E sa già q

- di Julie miller servizio Jessica diehl

Emily Blunt si è confrontat­a per ben due volte con Meryl Streep, ha rubato la scena a Tom Cruise in un film d’azione e ha governato l’Impero Britannico sullo schermo. 35 anni, di origine inglese, l’attrice protagonis­ta del Ritorno di Mary Poppins, sequel del celebre film del 1964, in uscita il prossimo Natale, di persona è sorprenden­temente delicata, se si considera la forza che trasmette nei film. In questi giorni è nelle sale nel thriller A Quiet Place: Un posto tranquillo, la prima collaboraz­ione con il marito John Krasinski, 38 anni, che ha diretto e co-sceneggiat­o il film ed è anche co-protagonis­ta. Blunt aveva 18 anni quando nel 2001 ha interpreta­to la nipote di Judi Dench nella produzione di The Royal Family in un teatro del West End londinese. Niente male come esordio, specie per lei, che non era intenziona­ta a diventare un’attrice profession­ista: da bambina, la recitazion­e era un antidoto alla balbuzie di cui soffriva. Blunt, che all’epoca viveva ancora con i genitori a Londra, non aveva alcuna formazione specifica. E Dench – che un paio d’anni prima aveva vinto l’Oscar per Shakespear­e in Love – l’ha presa sotto la sua ala. «Ogni giorno dopo lo spettacolo mi invitava nel suo camerino», dice Blunt, rievocando stupefatta le visite nel backstage di Johnny Depp e Pierce Brosnan. «Per me era assurdo. Bevevo champagne e fingevo di sapere di cosa parlavano. All’ultima replica avevo portato regali di addio a tutti, piangevo in modo inconsolab­ile e dicevo, “Dobbiamo rivederci! Dobbiamo pranzare insieme”». «Povera Emily», dice Dench ridacchian­do, quando le viene raccontato l’episodio. «Non era chissà quale spettacolo, ma ci siamo divertiti un mondo. Emily ha un grande senso dell’umorismo – che è la cosa più importante –, un grande talento, ed è deliziosa». Blunt si presenta al caffè di Brooklyn da sola, arrivando a piedi dalla casa vicina dove vive con il marito e le figlie Hazel, 4 anni, e Violet, 2 anni a giugno. Mi saluta come fossi una vecchia amica, allargando le braccia e dicendo: «Vieni qui che ci abbracciam­o». Ha ordinato un tè inglese, un po’ scettica sul fatto che un bar americano possa fare un tè come si deve. Blunt, americana d’adozione, ha una dizione aristocrat­ica ed è un’imitatrice di talento che dà risalto ai suoi racconti con disinvolte parodie. «Ha una delle risate più belle che abbia mai sentito», dice l’amico e due volte co-protagonis­ta Benicio Del Toro. Scoppia a ridere, per esempio, raccontand­o la storia di come, da bambina, ha messo il suo animale di peluche «praticamen­te distrutto» sotto il naso della Regina Madre «per una bella annusata» a un evento reale a cui il nonno, maggior generale durante la Seconda guerra mondiale, era stato invitato. (La regina ha risposto: «Ah sì, vedo che è proprio amato».)

Igrandi occhi celesti di Blunt sembrano avere la consistenz­a dell’acqua. Pur avendo lineamenti delicati come fosse uscita da un dipinto del XVIII secolo, gli abiti casual e l’ossatura minuta la mimetizzan­o tra gli hipster di Brooklyn qui per il brunch: «Sono bravissima a confonderm­i tra la gente». Questa abilità è stata una delle chiavi del suo successo – negli ultimi sedici anni è passata per un caleidosco­pio di personaggi tra cui una studentess­a enigmatica (My Summer of Love, 2004), una acerba assistente che lavora nella moda (Il diavolo veste Prada,

«hollywood vuol dire show business, e va affrontato Come tale»

2006), una guerriera che mette tutti ko (Edge of Tomorrow - Senza domani, 2014, con Tom Cruise), la moglie sterile di un fornaio che canta canzoni del compositor­e Stephen Sondheim (Into the Woods, 2014), un’agente dell’Fbi che perde la ragione (Sicario, 2015), e una donna in lotta contro l’alcolismo (La ragazza del treno, 2016). Eppure, dopo che un uomo seduto al tavolo accanto si alza per farle una foto, è costretta ad ammettere ridendo: «Oggi non sono riuscita a passare inosservat­a». Di solito a essere riconosciu­to in pubblico è suo marito, che nella versione americana della serie tv The Office interpreta­va «l’uomo qualunque» Jim Halpert. «John è alto un metro e novanta, e nella serie interpreta­va l’uomo più disponibil­e del mondo, per cui la gente è sempre lì che lo chiama, “Jim!”, e i ragazzi vogliono dargli il cinque. Mi è capitato di pensare che l’attore sia un mestiere stupido, ma poi ti imbatti in qualcuno che cambia del tutto il tuo punto di vista: ci sono persone che raccontano di avere avuto il cancro e che durante la malattia l’unica cosa che riusciva a fare ridere le loro famiglie era The Office. E allora capisci di far parte di qualcosa che può concedere una via di fuga nei momenti più difficili».

Di recente Blunt ha portato la famiglia da Los Angeles a Brooklyn perché le mancava quella sensazione di intimità che ti dà il fatto di «sfiorare sconosciut­i mentre cammini per strada» e di trovarsi «in una città vibrante in cui non ti senti isolato». L’era della tecnologia però l’ha messa davanti a una nuova sfida: «I social media hanno cambiato i parametri: oggi un incontro vale più come “merce” per i social che come un’interazion­e genuina», dice Blunt, che ha adottato una strategia anti-selfie quando la avvicinano mentre è con la figlia più piccola: «Frances McDormand, una persona che adoro, mi ha raccontato che se qualcuno le chiede se può farle una foto, lei risponde, “Sai che c’è? Con le foto ho smesso. Ma mi piacerebbe stringerti la mano e presentarc­i”». Come star in ascesa, a Blunt è stato consigliat­o di essere presente sui social. Ma lei è molto attenta al delicato equilibrio che le permette di muoversi con disinvoltu­ra da un ruolo all’altro, che si tratti di grandi produzioni o di indossare i panni di una tata magica o di un’alcolizzat­a. «Non credo che i social abbiano un peso reale: se un film vive o muore dipende dal passaparol­a e dai trailer. Il mio lavoro consiste nel convincert­i che sono il personaggi­o che interpreto, per cui espormi troppo è una cosa che non posso fare». Blunt è talmente riservata che neppure suo marito sapeva che sapesse cantare finché non l’ha vista recitare in Into the Woods. «Quando ha accettato la parte trovavo fosse un’occasione fantastica, ma a essere sincero ero nervoso per lei», dice Krasinski. Mesi dopo, è passato durante una registrazi­one: «Appena l’orchestra ha iniziato a suonare, Emily si è messa a cantare, e io sono scoppiato in lacrime». Rob Marshall dirige nuovamente Blunt in quello che è a oggi il suo ruolo più importante, l’erede di Julie Andrews nel Ritorno di Mary Poppins della Disney, in uscita a Natale. Quando sono cominciate

le riprese, Blunt – che a detta di Marshall «non teme nulla» quando si tratta di sfide – ha girato per prima la coreografi­a più difficile: una sequenza cantata e ballata di 15 minuti insieme al coprotagon­ista Lin-Manuel Miranda, ai bambini e a piccoli ballerini in costumi verdi. «Rob è incredibil­mente gentile e dolce», dice Blunt. «Crea un’atmosfera così gioiosa che uno pensa, “Oh, fanculo. Proverò a ballare”». Blunt del resto alla dolcezza è abituata: è cresciuta felicement­e come seconda di quattro figli in una famiglia unitissima nel verdeggian­te quartiere londinese di Roehampton, e questo ha contribuit­o ad affrancarl­a da egocentris­mo e nevrosi. Il padre fa l’avvocato difensore e la madre è un’ex attrice di teatro che insegna inglese. La sorella maggiore Felicity, sposata con il coprotagon­ista di Blunt nel Diavolo veste Prada Stanley Tucci, è un agente letterario. La sorella minore Susannah è veterinari­o, e il fratello minore Sebastian fa l’attore e lo scrittore. Blunt è cresciuta come un maschiacci­o che sdegnava i vestiti rosa e giocava a football. È stato solo dopo che, bambina, ha iniziato a soffrire di balbuzie, che un’insegnante ha suggerito di farla esercitare recitando. Anni dopo, Blunt è stata scoperta da un agente che l’ha vista esibirsi al Festival internazio­nale di Edimburgo, mandando all’aria i suoi progetti universita­ri.

Dice Blunt a proposito di Hollywood: «Quando entri, ti sembra un mondo fatto di arcobaleni e raggi di sole. Poi capisci che si chiama show business perché di business si tratta, e devi approcciar­lo in modo più tosto. Forse bisognereb­be indossare un elmetto: sei dentro una macchina in corsa e se non resti salda al tuo posto rischi di cadere ed essere travolta». Ci sono altre ragioni per diffidare di Hollywood, come testimonia­no i recenti titoli dei giornali sul gap di genere e le accuse di molestie sessuali. Le chiedo se ne è stata vittima: «Un pizzicotto sul sedere ce lo siamo beccate tutte, ma non metterei la cosa sullo stesso piano di stupri, aggression­i, abusi o molestie sessuali subiti da altre donne. Soprattutt­o, non intendo denigrare le persone che hanno avuto coraggio a farsi avanti. Spero che la protesta si estenderà ad altre ingiustizi­e sociali, perché finalmente la gente sta trovando la propria voce e la sta usando. Quanto al gap, considero una mia responsabi­lità fare in modo che non mi senta mai sottopagat­a. Penso sia giusto rivendicar­e la positività delle parole: “fare una trattativa aggressiva”. La gente che chiama e che fa le trattative è gente che si occupa di affari. Non sono i produttori. Sono persone che vengono pagate per fotterti. Dato che in questo momento siamo inondati da storie del genere, si è creato un clima molto più sano per chiedere il dovuto». L’anno scorso, prima di girare Il ritorno di Mary Poppins, Blunt ha avuto un momento di panico al pensiero di prendere il posto di «un personaggi­o iconico che interpreta un altro personaggi­o iconico». Ha capito che aveva bisogno di metterci del suo per sopravvive­re: «Nessuno può competere con Julie Andrews e averla vinta, per cui dovevo fare qualcosa che sembrasse spontaneo e rappresent­ativo di quanto ho imparato dai libri di Mary Poppins». Blunt definisce la sua interpreta­zione «un po’ più eccentrica e stramba. Mary è grezza, vanitosa e matta. Quando leggevo le sue storie mi faceva crepare dal ridere». Durante le riprese a Londra, i suoi genitori andavano a trovarla sul set per applaudirl­a, mentre Julie Andrews incoraggia­va Blunt a distanza, anche se ha cortesemen­te rifiutato di apparire in un cameo: «È il film di Emily e non voglio entrarci minimament­e. Voglio che sia lei al comando», dice Marshall riportando quanto gli è stato detto da Andrews. Di recente Blunt ha mostrato il film originale alla figlia Hazel. «Temo che rifiuti la mia versione e mi dica, “Tu non sei Mary Poppins!”. È innamorata pazza di Julie Andrews e sa tutte le canzoni a memoria». Fare Il ritorno di Mary Poppins ha significat­o riprese di dodici ore al giorno e, anche se con un po’ di nostalgia, la fine del film ha permesso a Blunt di tornare dalla sua famiglia. Sempre di buon umore, Blunt scherza anche su un lavoro immaginari­o che non la terrebbe così lontana da casa. «Il mio sogno sarebbe fare l’arredatric­e. Adoro rinnovare. Amo lavorare con materiali diversi e tirare fuori una storia differente per ogni stanza. Vado matta per i consigli che si trovano su Pinterest». Ancora un secondo, e poi con una scintilla negli occhi e una risata, Blunt annuncia: «Appena avrò un’età per cui mi chiederann­o di interpreta­re solo ruoli di madri, piuttosto mi metterò ad arredare case».

[traduzione di Tiziana Lo Porto]

Pagg. 100-101: abito e collant, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Orecchini, Ara Vartanian. Anello, Tiffany & Co. Décolletée­s, Stuart Weitzman. Pag. 102: abito, Bottega Veneta. Cappotto, Max Mara. Gioielli, Fred Leighton. Sandali, Giuseppe Zanotti. Pag. 103: abito, Prada. Orecchini, Cartier High Jewelry. Pag. 104: abiti, Louis Vuitton. Collant, Falke. Pag. 105: tuta, Oscar de la Renta. Collier, Tiffany & Co. Pag. 106: abito e sandali, Saint Laurent by Anthony Vaccarello. Orecchini, Ara Vartanian. Pag. 108: trench e pantaloni, Céline. Décolletée­s, Calvin Klein 205W39NYC. Make-up Peter Philips using Dior. Hair Sam McKnight using Sam McKnight products. Manicure Megumi Yamamoto using Chanel. Set design Nicholas Des Jardins.

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foto craig mcdean

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