Vanity Fair (Italy)

UN MONDO A PARTE

Il grande fotografo brasiliano SEBASTIÃO SALGADO è tornato a immortalar­e i Korubo, una delle tribù amazzonich­e più incontamin­ate. Ci ha raccontato che, in fondo, tra noi e loro non c’è tutta questa differenza (tranne forse il tabù delle «guance»)

- di PAOLA JACOBBI

Ogni volta che parte per uno dei suoi viaggi, Sebastião Salgado dice che sarà l’ultima. Le spedizioni sono faticose, le trattative burocratic­he per i permessi complicate e le noiose quarantene sanitarie obbligator­ie. Ma poi se ne dimentica. Sta per partire di nuovo, infatti. Torna in Amazzonia, cuore del progetto di una vita, anche se prima «io e mia moglie passeremo a São Paulo, a trovare la nipotina Nara, che ha appena tre mesi», mi dice al telefono da Parigi, dove vive. «È la prima nipote, finora c’era solo un maschio, Flavio, che ha già vent’anni, quindi lei è stata una bellissima sorpresa». Quando sarà più grande Nara potrà apprezzare le incredibil­i avventure del nonno e la sua storia d’amore con l’Amazzonia. Noi possiamo farlo anche subito, attraverso il reportage che vedete in queste pagine sulla tribù Korubo, nella valle del Javari, una delle più isolate popolazion­i al mondo. Il loro primo contatto con i bianchi risale solo al 1996. Poi, più nulla fino al 2014 e 2015. L’anno scorso è arrivato Salgado, con la sua macchina fotografic­a, il suo interprete, gli assistenti. I due villaggi dei Korubo stanno a metà strada tra il fiume Solimões e la frontiera tra gli Stati brasiliani dell’Amazzonia e dell’Acre. I Korubo, sempre armati di clave, si sono fatti la fama di una tribù parecchio violenta. Salgado non è d’accordo e mi corregge: «Hanno difeso la loro terra da molte invasioni, anche a mano armata, tanto che è stato difficile avere il permesso del Funai (Fundação Nacional do Índio) per andarli a trovare, andavano convinti con grande calma a un nuovo incontro con i bianchi». E come sono? «Esattament­e come me e lei. Anche se il loro stile di vita è fermo da duemila, tremila anni, i sentimenti che provano sono uguali ai nostri, le relazioni affettive tra genitori e figli, mariti e mogli, sono uguali alle nostre in tutto e per tutto». Non nell’abbigliame­nto. Le donne sono sempre nude, tranne una specie di collana e, quando hanno dei bambini piccoli, una fascia di fibra vegetale per portare il bebè. Si decorano il corpo di «urucum», un colorante derivato dai semi della pianta omonima con il quale formano dei disegni geometrici. Anche gli uomini lo usano, e si dipingono tutto il corpo, nudo tranne per un pezzetto di stoffa che copre il prepuzio, il punto della «vergogna» che, invece, per le donne, sono le guance. Il senso della comunità è fortissimo ma le regole variano da tribù a tribù. Chiedo a Salgado se, tra le varie comunità, abbia mai incontrato delle coppie gay: «Certo, lo è il sei per cento della popolazion­e mondiale, e in proporzion­e ci sono gay anche nelle tribù: sono perfettame­nte integrati e accettati». Tra i Korubo, che in teoria sarebbero una società patriarcal­e, ai tempi del primo contatto con i bianchi la persona che mandò avanti la comunicazi­one era una donna, Maya. Allora era «single» e comandava lei, adesso ha avuto dei figli e la responsabi­lità è passata ad altri. «Ma non ci sono regole fisse», spiega il fotografo, «ci sono tribù matriarcal­i dove le donne prendono decisioni per tutta la comunità e hanno più di un marito: uno caccia, uno pesca, uno si occupa di difendere la casa». E poco lontano dai Korubo c’è un’altra tribù dove uomini e donne parlano la stessa lingua ma in modo diverso, usando termini e suoni distinti: forse ha ragione Salgado, non c’è molta differenza tra noi e «loro».

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foto SEBASTIÃO SALGADO GUARDATE IN CAMERA Tananeloan­pikit e Tsamavo Vakwë, appartenen­ti alla tribù dei Korubo della valle del Javari, in Amazzonia, Brasile.
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Da sinistra, donne korubo al lavoro: Luni, con un aoto dalla testa nera, scimmietta notturna, Këtsi e Wio. INTRECCI

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