Vanity Fair (Italy)

SEGUIRE LE REGOLE SCRITTE DAGLI ALTRI

Ascoltare il proprio istinto e non l’esperienza altrui, parlarsi sempre e conservare la leggerezza non avendo aspettativ­e: questo è l’esercizio quotidiano dell’artista italo-inglese JACK SAVORETTI per proteggere l’amore e tenere a bada l’ansia di essere a

- di LAVINIA FARNESE

Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Ne prendiamo uno, minuscolo. Questo: «Il punto più scuro è sotto la lampada». Qualcosa di molto vero a cui non capita di pensare. Ma Jack Savoretti annuisce, lo conosce, sa di cosa parliamo. «Quando ho incontrato mia moglie Jemma (Powell, inglese, attrice, ndr), quando sono nati i nostri figli (Connie e Winter) è stato come se si fosse acceso dal niente un abat-jour, e poi due lanterne mai scoperte prima: nuove, accecanti, con il loro cono d’ombra che si apre più esteso sempre proprio dove c’è maggiore luce. Da lì, i lati bui di ognuno: anche di chi ci è più intimo, soprattutt­o di chi ci dorme al fianco. È l’ansia dell’essere adulti». Trentacinq­ue anni a ottobre, britannico di nascita e italiano di origini, alle spalle Sleep No More, un album che è una lettera d’amore

edizione speciale, e davanti Acoustic Nights Live, un tour appena partito nei teatri e che durerà fino all’estate. «Dopo avere portato i nostri fan a prenderci una birra insieme in osteria, ora ci celebriamo in una cena favolosa in posti stupendi, con pianoforte e archi». L’aria è quella, gli dicono, da Bob Dylan. «Ma io mi sento più affine al modo di Paul Simon: si prende molto sul serio in tutto, tranne nelle canzoni. Che hanno sempre qualcosa di solare dentro e mai confondono malinconia e tristezza. Una ha fascino e la vado a cercare. L’altra è cupa e ti si appiccica addosso». When We Were Lovers di che feeling è frutto? «L’ho scritta in un momento in cui ero felicissim­o: era nata da poco mia figlia, stava per venire al mondo mio figlio, ed è arrivata anche Quando eravamo amanti. Come arrivano le canzoni: che salgono dal vuoto, mettono in ordine quello che è, e tu non fai che ascoltarlo di fila. Questa voleva dirmi che agli inizi a tenerci svegli la notte è altro dal pianto dei nostri figli, e forse sembra tutto più ardente di come poi diventa, ma la verità è che è il Lullaby Loving, l’amore da ninna nanna, superlativ­o». In che cosa, esattament­e? «Non è ballare sotto la pioggia spensierat­i come ai tempi, ma fare un bagno al mare vicino a una nave da crociera enorme: sta nella tua stessa acqua, ma ti sovrasta in grandiosit­à». L’avere avuto genitori separati ha contato nell’avere costruito un nucleo così unito? «Forse venire da un amore poi finito ha fatto sì che ricercassi una solidità, ma mai nulla è detto. I miei sono stati ottimi genitori forse proprio nel riconoscer­e i limiti del loro legame. E oggi sembra esserci più distacco tra i genitori di mia moglie, ancora insieme, che tra i miei. Quindi le regole di che cos’è una famiglia ben combinata o distaccata non sono quelle che pensavo. E non sono quelle che pensava mia moglie. E allora è come se uno di fronte all’altro fossimo giunti a una conclusion­e utile». La condivida con il prossimo. «E se lo facessimo a modo nostro? Se buttassimo via come hanno fatto loro? Se non ci facessimo dire dagli altri com’è raccomanda­bile procedere, esprimendo­ci solamente come sentiamo noi?». Quali regole ne sono uscite? «La prima: quando vedi che stai tornando alle vecchie, quelle che non hai scritto tu, sia che abbiano fallito sia che abbiano avuto successo, scansarle. La seconda: parlale, continuale a spiegare che cosa ti fa felice e che cosa no. La terza: annullate le aspettativ­e, spengono la leggerezza». Facile, insomma. «Aiutarsi, quando non lo sembra. È un esercizio quotidiano». Paesaggio terso. Mai, o quasi, un temporale, pare. Possibile? «Eppure io non ho mai odiato nessuno in vita mia come mia moglie. Perché non c’è frustrazio­ne maggiore di quella che puoi provare quando non sei capito dalla persona che ami. Nella rabbia verso qualcuno c’è il tenerci». Sleep No More dà il titolo al suo album. Che cosa oggi non la fa dormire? «Le cose che più piacciono, dunque l’amore, i bambini, la felicità, gli amici. E le brutte abitudini, stare fuori troppo e non sapere mai quando è l’ora giusta di tornare a casa. L’ansia».

«DA PICCOLO SOGNAVO DI DIVENTARE UN FILOSOFO DEL CALCIO COME ANDREA PIRLO. O TOTÒ SCHILLACI»

Ne ha così tanta? «Da vendere. Mantenere la responsabi­lità mi tiene sveglio la notte: tenere testa alle promesse fatte a me stesso, a mia moglie e ai miei figli di essere l’uomo, il marito e il padre che voglio essere. È un giudizio che riesci a darti solo alla sera, quando ti chiedi se ce la stai facendo o meno». Ce la sta facendo? «Nella mia mente nothing is ever good enough, niente è mai abbastanza». Siamo nel territorio della percezione, però. «La vita che cos’altro è? Siamo qui, ora. E se io dormo tutto dorme, se sono al bar tutto è al bar, e quando muoio la storia è finita». Com’è essere un cantautore ligure – lo è Gino Paoli, lo furono Tenco e De André – ma nel 2018? «Ci si sente soli. Perché la nostra generazion­e non è iscritta in un movimento culturale. Oggi non ci sono barriere. Con la Rete e i talent, entrano tutti. E ognuno è impegnato a non affogare nella massa dei tanti che, come te, vogliono fare musica, indipenden­ti». Com’è l’Italia vista dalle campagne inglesi? «Calda, bella e complicata. Il contrario dell’Inghilterr­a, che issa la bandiera dell’apertura, ma poi parli con la gente e ti rendi conto che non è così». Suo nonno Giovanni era un partigiano. Suo padre Guido è dovuto migrare per evitare ritorsioni dopo essere stato testimone di una rapina. «Altri tempi: è per loro che amo Genova, adoro il mare. Così mia figlia, “lady idee chiare”: è una senza dubbi». Lei invece ne aveva da piccolo? «Ascoltavo Pensieri e parole di Lucio Battisti ma sognavo di diventare un filosofo del calcio tipo Andrea Pirlo. O Totò Schillaci, che in Italia ’90 ha smarcato anche il mio imbarazzo di tifare Inghilterr­a avendo un papà azzurrissi­mo: sceso in campo lui, non c’è più stata partita. Almeno in me che ero tutt’altro che veloce e non facevo mai gol». Come ci è finito su un palco? «Compiti a casa, da scuola. “Scrivi una poesia: La mia stagione preferita”. Scelgo l’autunno. Perché c’è il mio compleanno. E mi piacciono i colori che fa. Dentro cui tutto non muore ancora, ma inizia a finire. La leggo a mia madre: è stupita, confusa, esaltata. “Accompagna­la”, mi dice, e da dietro al divano solleva una chitarra. L’avevamo lì, coperta di ragnatele. Me la allunga e io non so da dove cominciare, ma poi comincio. E dico: “Wow”, un’esperienza solitaria diventa emozione collettiva. Two Birds with One Stone». Dove vivevate, allora? «A Fulham. La domenica in tv davano spaghetti western. Era l’unico momento in cui mio padre, broker marittimo con la passione per la recitazion­e – partecipò a Zorro con Alain Delon e a La madama con Christian De Sica –, era con noi. In sottofondo, Ennio Morricone. A fine giornata mi mettevano a letto. Lui si fermava di più, e mi accarezzav­a dietro la schiena piano per farmi addormenta­re. Un gesto che ripeto con Winter. E sul suo viso ritrovo le stesse espression­i che avevo».

«LE CANZONI SALGONO DAL VUOTO, METTONO IN ORDINE QUELLO CHE È, E TU NON FAI CHE ASCOLTARE»

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foto MAX & DOUGLAS
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