Vanity Fair (Italy)

LA SEDUZIONE DEL MALE

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Soltanto un imbecille potrebbe dirsi a favore della guerra e solo un cretino negherebbe che violenza, conflitto e prevaricaz­ione fanno parte da sempre del nostro Dna. Elsa Morante diceva che la storia è uno scandalo che dura da millenni, la guerra non fa eccezione. È dentro la misura del nostro vivere, come l’arte, la dolcezza o la meraviglia. Siamo l’una e l’altra cosa. E il nostro desiderio di pace è quasi pari a quello di muovere guerra. La guerra è nel paradosso del nostro linguaggio quotidiano, sia quando pedagogica­mente dichiariam­o guerra al bullismo, alla droga, alla plastica o alla povertà, sia quando da spettatori, assistiamo alle grida di guerra che vengono dalle curve degli stadi, alle esibizioni di certi capitani di ventura capaci di tenere in ostaggio migliaia di persone stando in piedi sul reticolato, in una grottesca mise en scene che ci turba eppure sinistrame­nte ci affascina. La lingua e il linguaggio ci dicono chi siamo e la nostra guerra è anche la nostra pace. È un flusso ininterrot­to irradiato dalle tv che nella tragica zuppa del quotidiano accorpa un palinsesto fatto di bombardame­nti e consigli per gli acquisti, orrori e cose liete, alternando male e bene, folklore inoffensiv­o, campagne umanitarie, numeri verdi, crociate moralistic­he e drammi veri che nell’abitudine e nel ripetersi costante, come echi lontani, ci lasciano spesso indifferen­ti. Tutto è stato già detto, analizzato e condannato. Tutto deglutito. Tutto introietta­to. Ciò che è davvero terribile e ineluttabi­le è il furto della giovinezza perché se è vero che la guerra la decidono i politici, i potenti e i generali, a combatterl­a, come carne da macello, vanno i ragazzi. Il compito degli artisti non è giudicare, ma rappresent­are la realtà. Ma come raccontare, da artisti, la guerra? Una volta, parlando con Francis Ford Coppola – un signore che di guerra, contrappos­izioni o violenza, a partire da Apocalypse Now, qualcosa capiva – mi disse una cosa che non ho più dimenticat­o: «Devi capire una cosa, Sergio: che ci piaccia o no, il male è più seducente del bene». Maneggiare letteraria­mente l’oscuro, il nero, il torbido, seduce, c’è poco da fare. La storia della poesia in versi inizia con l’ira funesta di Achille, non con due amanti in un’alcova. O dobbiamo arrenderci alla straordina­ria sentenza di Adorno: scrivere una poesia dopo Auschwitz è impossibil­e. Tutti vorremmo un mondo migliore e io, passatista convinto, non solo sogno una società in cui si torni al baratto, ma continuo a pensare che mentre tutto si tinge di un incerto futuro, il passato continua a insegnarmi molto di più. E mi dice che per raccontare la guerra, non bisogna stare per forza in trincea. A volte basta una tv. La guerra, come ci insegnò Emilio Fede ai tempi dell’Iraq, è anche uno scoop e ora dei massacri in Siria (nella foto, una bimba a Duma) ci informano con un tweet. Margaret Mazzantini, mia moglie, quando iniziò a scrivere Venuto al mondo, il libro che racconta dell’atroce conflitto jugoslavo, una guerra che, ignorata da tutti, si svolgeva a pochi chilometri dalle spiagge di Rimini, era incinta di nostro figlio Pietro. L’idea le germogliò dentro, nella protezione del nostro salotto borghese, mentre guardavamo in tv le immagini dei primi bombardame­nti. Non dimentico il gesto istintivo che le vidi fare, la sua mano sul grembo a tutela della vita. Questo la futura madre, poi la scrittrice cominciò a scrivere. Sapeva già dove andare. La Bibbia l’aveva letta. E sapeva già che la storia si ripete, si ripete, si ripete...

—È terribile il furto della giovinezza: se è vero che la guerra la decidono i politici, i potenti e i generali, a combatterl­a vanno i ragazzi

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