LA MIA PIÙ GRANDE PAURA
Immagina futuri devastanti, in cui le donne sono ridotte in schiavitù, come nel suo Racconto dell’ancella. Ma la vera preoccupazione di MARGARET ATWOOD per il mondo che verrà ha a che vedere soprattutto con gli oceani
Margaret Atwood è quando una scrittrice diventa oggetto di culto. La sua rilevanza va oltre l’opera, soprattutto dopo il successo delle due serie che l’hanno resa popolare anche tra i non lettori. L’uscita in tv di The Handmaid’s Tale (su TimVision è in arrivo la seconda serie) e dell’Altra Grace (Netflix) hanno coinciso con l’ascesa di Trump, gli attacchi all’aborto e all’emancipazione, il caso delle molestie sessuali. Il mondo distopico di Atwood, dove le donne sono ridotte in schiavitù, semplici uteri per procreare, e dipendono dalla volontà degli uomini, sembra quasi un’ipotesi possibile, non solo la fantasia di una scrittrice nel 1985, anno di uscita del libro. Nata a Ottawa nel 1939, Margaret fino a 11 anni non ha frequentato una vera e propria scuola. A 16 anni però ha già deciso di fare la scrittrice e con il suo secondo libro di poesie – The Circle Game – vince il Governor General’s Award, principale riconoscimento letterario canadese. Da allora ha pubblicato 40 libri, fra cui Il canto di Penelope, L’assassino cieco, Occhio di gatto, Per ultimo il cuore. Molto impegnata anche come attivista e ambientalista, oggi è considerata una delle autrici più importanti di lingua inglese ed è stata per anni tra i nomi papabili per il Nobel della Letteratura, finché nel 2013 la vittoria della connazionale Alice Munro ha azzerato le probabilità per lei. Perché nei suoi romanzi le piace immaginare scenari possibili per società future? «È una tradizione che risale alla Parigi pre Rivoluzione francese di Louis-Sébastien Mercier nell’Anno 2440, se non alla Repubblica di Platone, e ai romanzi di Verne. Ma questi erano di natura utopica – la società sarebbe stata migliore – anziché distopica, come Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell – la società sarà peggiore. Utopie e distopie richiedono al lettore di confrontare le cose del nostro tempo con la società futura proposta. Pongono la domanda: ti piacerebbe vivere lì? Se sì, quali cambiamenti bisognerebbe fare per arrivarci? Se no, come prevenirlo? Ho letto un bel po’ di questi romanzi in gioventù, e ho sempre desiderato segretamente scriverne uno». Le cose spaventose che accadono nel Racconto dell’ancella non sono solo frutto di fantasia. Che cosa la spaventa di più adesso? «Mi ero data la regola che non potevo scrivere niente che non fosse già accaduto in qualche tempo o in qualche luogo. Non sono avvenute però tutte insieme contemporaneamente, almeno non finora. Quindi nulla è pura invenzione. Ciò che mi spaventa di più non è in realtà in nessuno dei miei libri: la morte degli oceani. Perché se muoiono loro, moriamo anche noi: producono il 60-80 per cento dell’ossigeno che respiriamo». Noi alcuni diritti li diamo per scontati, mentre potremmo perderli all’improvviso. Lei pensa che la democrazia sia in pericolo? «Sì, i capovolgimenti nel passato sono stati improvvisi. In tempi di caos e disagio, ci saranno sempre prese di potere e quindi tentativi di sopprimere qualsiasi opposizione. Periodi di controllo delle masse non sono una novità. Penso che la democrazia – se con ciò intendiamo il governo da parte del popolo e per il popolo – sia stata seriamente messa in discussione in molti Paesi con la manipolazione dei voti attraverso i social media, le fake news e il ruolo giocato da enormi quantità di denaro durante le elezioni. Questo ha incoraggiato gli estremismi. Non penso che abbiamo visto una situazione politica così polarizzata dagli anni Trenta». Perché è importante un narratore al femminile? «Il racconto dell’ancella è narrato da una donna, non una cosa così usuale quando uscì. Le donne sono poco più della metà della razza umana: sarebbe davvero molto strano se non ci fossero narratori femminili. Infatti, quando il romanzo si sviluppa tra la fine del Settecento e l’Ottocento, man mano che le lettrici aumentavano, anche i narratori femminili diventavano comuni, benché i romanzi fossero scritti per lo più da uomini: pensiamo ad Anna Karenina o Madame Bovary. Alcuni dei personaggi femminili più longevi, come Jane Eyre, sono però stati scritti da donne. E anche molti protagonisti delle fiabe sono donne. A volte mi piacerebbe scoprire come sarebbe una storia se cambiassimo il genere». Il suo nome è spesso associato alla parola femminismo. So che non ama domande al riguardo, ma dopo il caso Weinstein si sono sentite cose come «il femminismo è solo l’opposto del maschilismo». Pensa ci sia bisogno di una nuova era femminista? «Non mi infastidiscono queste domande, ma ci sono almeno cinquanta tipi di femminismo e per rispondere ho bisogno di sapere quale si intende. Gli interlocutori sul tema del femminismo sono molto spesso vaghi: pensano significhi che tutte le donne debbano essere considerate creature angeliche, o altre assurdità. Sappiamo dalla vita reale che questo non è vero». Quindi? «Le donne sono esseri umani, e i diritti delle donne sono diritti umani. Non è un’idea così radicale, anche se Olympe de Gouges, che la propose durante la Rivoluzione francese nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, fu mandata alla ghigliottina. Ciò che si chiede è la parità, non il diritto di dominare. Lo spettacolo di uomini in ruoli servili si vede di solito in giochi satirici come Ragazze elettriche di Naomi Alderman, dove le donne, capaci di fulminare le persone, prendono in mano qualche “comando”. Ma in realtà è una critica dell’uso da parte degli uomini del loro attuale potere».