«Dopo Modena Park mi sento libero e tranquillo di poter fare quello che mi pare»
L’anno scorso, dopo lo straordinario concerto di Modena per i suoi 40 anni di musica, c’è chi ha creduto si trattasse di un addio. Sbagliato: «Io di smettere non avevo voglia neanche un po’ ». E così ora riparte. Con uno «spettacolo» e alcune sorprese. Ch
l quartier generale di Vasco Rossi è una palazzina di due piani che affaccia sulla via Emilia, a Bologna. Sotto c’è lo studio di registrazione, a pianoterra quello che una volta era il bar del Blasco e che adesso ospita, tra le altre cose, una ristretta selezione di omaggi personalizzati, tutti regali dei suoi fan: plastici degli stadi dove ha suonato, magnum decorate in suo onore, persino un trono dorato con sullo schienale uno scatto di Modena Park, il concertone del 2017 con il quale ha festeggiato i 40 anni di musica: 220 mila spettatori, record mondiale. Al primo piano ci sono alcune stanze uso ufficio e una cucina, dal secondo scende Vasco.
Gli chiedo come sta, perché ancora oggi la prima domanda che ti fanno quando racconti che andrai a incontrarlo è: «Sta bene? È malato?». Tutti ricordano la grave infezione del 2011 e la lunga convalescenza. Fa una risatina. «Era una malattia dalla quale si poteva guarire e sono guarito». Il Vasco Non Stop Live parte con la data zero il 27 maggio a Lignano per poi percorrere l’Italia da nord a sud in cinque date. «Modena Park è stato un evento talmente straordinario sotto tutti i punti di vista che uno, dopo, avrebbe anche potuto fermarsi. Ma io di smettere non avevo voglia neanche un po’». In effetti poteva venire interpretato come un addio. Non si era posto il problema di cosa fare dopo un evento del genere? «Non avevo in mente che fosse l’ultimo concerto, non sono uno che programma. In realtà lo considero non so se un momento di arrivo o di ripartenza, diciamo uno spartiacque. Dopo Modena Park mi sento libero e tranquillo di poter fare quello che mi pare. Mi voglio divertire e finché la gente, il mio popolo, si diverte io sono pronto a salire sul palco tutti gli anni. Vado fuori e canto le mie canzoni – 24, 30 per volta – e siccome ne ho tante ne rimangono sempre fuori un sacco che mi piacerebbe suonare. Ogni anno c’è Pasqua, la primavera, e da quest’anno, a giugno, ci sono i concerti di Vasco. Questo è lo spirito, capito?». La scaletta è già decisa? «Abbiamo riarrangiato alcuni pezzi vecchi, degli anni Ottanta. Modena Park è stata un po’ una seduta psicoanalitica, nel senso che mi sono ritrovato a cantare canzoni che ho scritto 35, 40 anni fa e che non facevo più da un sacco di anni. All’inizio ero un po’ spaesato, per dire di Bollicine non ricordavo neanche più il testo. Poi, a un certo punto, mi sono ritrovato nello stesso spirito di quando le avevo scritte, di quando avevo 15 anni...». Quindici di testa. «Esatto. Perché non ero mica ancora andato oltre quell’età lì. Ho cominciato a crescere sei, sette anni fa. Quando mi sono fermato, grazie anche alla malattia, ho cominciato a guardarmi intorno, a vedere delle sfumature che prima non avevo mai notato e, per i primi due anni, ero come incantato. Adesso, però, di sfumature sto cominciando a vederne troppe e non ne posso più. Sono tante le cose che non mi piacciono». Per esempio? «La triste condizione umana in cui tutti siamo gettati. Una canzone può essere perfetta, tutto il resto no». Torniamo al tour? «Non chiamiamolo tour, chiamiamolo lo spettacolo di quest’anno. Apriamo con Cosa succede in cittˆ. È una canzone che ho scritto nel 1985, ma che è ancora molto attuale. Pensiamo alla situazione che stiamo vivendo proprio adesso: la confusione, per esempio, ce n’è davvero un bel po’ in giro e anche di cose che non vanno. E, poi, secondo me, si capisce subito che ci parliamo chiaro. E, poi, ci sono almeno un paio di canzoni che non facevo da un pezzo. Non posso dire quali perché saranno una sorpresa e perché ho capito che più faccio anticipazioni e più mi rompono le palle. Se dicessi su Facebook che giubbotto mi voglio mettere, di sicuro ci sarebbe qualcuno che non è d’accordo. Non ho capito: ti sto comunicando quello che ho deciso, non è che mi devi dire se ti va bene o no. Non sono mica una democrazia, che
ci dobbiamo mettere a discutere». Le mancano gli anni Ottanta? «All’epoca, fra di noi, ci dicevamo: che bello avere 15 anni e non capire un cazzo. Ho vissuto gli anni Settanta, ho visto tutta la voglia di cambiare, i sogni, la musica di quel periodo, poi sono arrivati gli anni Ottanta e la gente non aveva più tempo di ascoltare i testi dei cantautori. Così ho trovato un sistema di comunicare in modo più sintetico. Nelle mie canzoni non è che racconto tutto, salto alcuni passaggi e tu li riempi con la tua immaginazione. Così ognuno la canzone se la vive a modo suo. Ogni volta che viene giorno... E ogni volta che mi sveglio... Che uno subito pensa: “Ma che cosa stai dicendo?”. E, invece, alla fine ti arriva un’emozione che è quella che volevo raccontare quella mattina lì che non avevo dormito, ero sul letto con la mia chitarra e ho cominciato a delirare... Allora, però, pensavo che a parte me nessuno la potesse capire. Poi, un giorno, l’ho fatta sentire a Guido Elmi (storico produttore di Vasco, morto la scorsa estate, ndr) e lui l’ha capita. Mi son detto: allora vado avanti su questa strada. È così che ho scritto Toffee, che era il massimo della sperimentazione». Ha detto che quello che diventiamo dipende dalla nostra vita tra gli otto e i nove anni. «A quell’età mia mamma mi mandava ai concorsi canori e mi comprava i librettini con i testi delle canzoni di Sanremo che andavamo a guardare alla tv del bar di Zocca. La domenica a casa dei nonni cantavo la canzoncina che avevo imparato». Lo guarda ancora il festival? «Certo, dei pezzi, non tutto. Negli anni Settanta, lo guardavo per ridere. Si vedevano delle cose talmente assurde da non sembrare neanche vere. Quando Ravera mi invitò al festival, nel 1982, gli dissi: stai scherzando? Io sono un rocker. “Ma hai bisogno di una platea nazionale”. Aveva ragione, al tempo mi conoscevano solo in Emilia. Chiesi: ma posso fare quello che mi pare?». La risposta fu sì e lei fece Vado al massimo. «Pensavo: vado lì e li prendo un po’ per il culo e mi faccio anche notare. Allora solo metà dei partecipanti arrivava in finale. Io ci riuscii e Claudio Villa no. Il reuccio, capito? Infatti s’incazzò come una bestia. Ravera si era chiuso dentro l’ufficio e lui era fuori che tirava calci e pugni alla porta: lo voleva ammazzare». L’ultima edizione di Claudio Baglioni l’ha seguita? «Sì, e un po’ in ritardo volevo fargli i complimenti perché è riuscito a trasformare il Festival di Sanremo in un monumento a se stesso (ride alla Vasco, in sordina). Facendo cantare le sue straordinarie canzonette a tutti i super ospiti ha raggiunto il massimo. È un genio quel ragazzo lì». Chiede di fare una piccola pausa. Sulla scrivania c’è un volume sulla storia dei Telegatti che, dopo dieci anni di assenza, torneranno il prossimo autunno. Mentre lo aspetto, comincio a sfogliarlo: Vasco appare in almeno una decina di foto a fianco di altri musicisti e cantanti. Parliamo un po’ di colleghi? Per esempio, Baglioni mi ha fatto venire in mente Gianni Morandi, che tra l’altro è emiliano come lei. Vi conoscete? «Premesso che colleghi secondo me è un termine sbagliato, perché noi artisti siamo scollegati uno dall’altro, quindi semmai siamo “scolleghi”, Morandi l’ho incontrato diverse volte. Anni fa lui e Lucio Dalla erano venuti a Zocca per propormi di collaborare non mi ricordo a che cosa». Pensi che trio. «Il fatto è che siamo universi diversi e paralleli. E, poi, io non sono tipo da duetti e terzetti. Ho sempre avuto la sensazione che quelli che si mettono insieme è perché non sanno bene che cosa fare. Cantare una canzone metà io e metà te va bene per i bambini dell’asilo: ci mettiamo il grembiulino, ci teniamo per mano e cantiamo la canzoncina. A volte, ti dicono: “Ma è per beneficenza”. Ma, secondo me, la beneficenza è una di quelle cose che fai aprendo il portafoglio e magari stai anche zitto, sennò non si capisce dove finisce il vantaggio per chi la fa e dove comincia la beneficenza. Per questo al grande Pavarotti ho sempre detto di no. Per lo stesso motivo non sono neppure mai andato a giocare nella Nazionale cantanti». Gliel’hanno chiesto tante volte? «Un sacco. Intanto non chiamatela Nazionale cantanti, ma squadra di cantanti. Perché le parole sono importanti. E, invece, la gente le usa come viene. Come quelli che dicono che democrazia è poter scrivere sui
«BAGLIONI È UN GENIO: HA FATTO CANTARE A TUTTI LE SUE CANZONETTE»
social che sei uno stronzo. Non è così. E, poi, la tua opinione la puoi esprimere con il tuo nome e cognome, non usando un nickname». Prima ha accennato a Lucio Dalla. Eravate amici? «No, ma ci siamo incrociati parecchie volte. Mi chiamava Piovasco. Perché aveva capito che al di là dell’aspetto selvaggio in realtà sono un buono. Era una raffinata testa di cazzo e un artista della madonna. Sono cresciuto ascoltando le sue canzoni. Me lo ricordo a Sanremo quando cantò 4 marzo 1943, rimasi incantato». Ma il suo modello resta Fabrizio De André. «Lo incontrai la prima volta nei primi anni Ottanta. Stavo quasi per inginocchiarmi ai suoi piedi ma lui mi ha subito mandato a fanculo: aveva questo modo fantastico di togliere di mezzo mitologie e sovrastrutture. Lui e Dori Ghezzi volevano produrre i miei dischi. All’epoca, avevo delle case discografiche un po’ “ballerine”. I dischi manco li distribuivano. L’apprezzamento di De André e di De Gregori sono le mie medaglie, i miei premi Oscar. Un altro grande complimento me lo fece Mogol, mi disse che ero riuscito a scrivere testi ancora più sintetici dei suoi. E lui, per me, è uno degli autori più bravi. Già prima della collaborazione con Battisti. Riderà, che io cantavo da piccolo, per esempio, è sua». Qui c’è una sua foto con Renato Zero. Lo ha conosciuto proprio agli inizi della sua carriera, vero? «Quando gestivo la discoteca di Punto radio alla fine degli anni Settanta. Il padre di Bibi Ballandi aveva un’agenzia di spettacolo e io andavo da lui a scegliere quelle che allora si chiamavano le attrazioni. Una volta presi Renato Zero. Fu un “buco” pazzesco, perché all’epoca non lo conosceva nessuno. A un certo punto gli si ruppe anche l’impianto e lui continuò raccontando barzellette e saltando in braccio all’uno e all’altro. In quel periodo mandammo in onda Madame per un mese di seguito come sigla della radio e so che qualche tempo dopo cominciò a esibirsi nei locali tra Emilia e Toscana. Mi sa che lo abbiamo lanciato noi». Ultima «scolleganza»: Zucchero. «È quello che ho conosciuto meglio di tutti. Aveva scritto Rispetto che mi era piaciuta molto e avevo voluto incontrarlo. Ci siamo visti un po’ di volte... E poi è successa la cosa di Pippo. Era venuto a Zocca a Natale e una sera, eravamo ubriachi, ci siamo messi a canticchiare: “Pippo che cazzo fai, Pippo che pesce sei...”. Si rideva: “Dai, andiamo insieme a Sanremo a prenderlo per il culo”». Baudo. «Con lui diciamo che non c’è mai stata simpatia reciproca. Comunque, in quel periodo Zucchero si stava separando dalla moglie: “Quando telefono a casa e la trovo allegra vuol dire che c’è il suo amico, quando è triste, invece, è da sola”. Che è la storia che si racconta nella canzone perché quando sono tornato a casa, la notte, ho continuato a scrivere e l’ho finita. Ma passata la sbornia me n’ero anche praticamente dimenticato. Fino a che, qualche giorno dopo, Zucchero mi chiama e mi dice: “Sono in studio di registrazione a Modena a incidere Pippo e vorrei che venissi a cantarla”. Gli spiegai che avevo scherzato: sto per uscire con l’album C’è chi dice no, capisci bene che non posso venire con te a Sanremo a cantare Pippo. È finita che la canzone l’ha incisa e il testo se l’è firmato lui. Però andava in giro a dire che, in realtà, l’autore ero io. Così i giornalisti mi chiedevano se era vero, ma io negavo. Dico io, oltre al danno la beffa?». Avete mai fatto pace? «Ma sì, ci siamo risentiti parecchie volte. Il punto è che Zucchero scrive musiche meravigliose, mentre i testi sono un po’ ruspanti. Quando ho sentito quella sua canzone che dice: “Questo è un urlo che viene, e un urlo che va, dal buco del culo al cuore”, gli ho telefonato e gli ho detto: senti, la prossima volta per favore mi chiami che ti do una metafora meno volgare. Gratis, naturalmente». Perfetto, chiudiamo con qualcosa di più elevato, ovvero il concetto da cui eravamo partiti: la libertà. «Per me, adesso, è non sentire più la necessità di fare un album prima, durante o dopo un tour. Però, ho il bisogno di far sentire le mie nuove canzoni, una alla volta che è anche più bello. La libertà è che non ho più da dimostrare niente. Si vede che sono arrivato al punto che più sopravvissuto di così... Eh, già, sono ancora qua». Styling Laura Schmidt. Grooming Marcorea per Orea Malià/Davines.
«LA LIBERTË PER ME OGGI È CHE NON HO PIÙ NIENTE DA DIMOSTRARE»