Vanity Fair (Italy)

INQUIETUDI­NE addio

- di SILVIA NUCINI foto ILARIA MAGLIOCCHE­TTI LOMBI

A dieci anni dal libro che lo ha reso famoso, oggi PAOLO GIORDANO è uno scrittore diverso: ha smesso di spingere sull’accelerato­re e ha ritrovato una calma che lo ha riconnesso a se stesso. Il risultato è un nuovo, lungo, romanzo, pieno di purezza. E del suo contrario

La prima intervista della sua vita l’abbiamo fatta insieme, dieci anni fa. «Ero talmente agitato che non mi ricordo nulla. Dove eravamo?». Era per il suo libro d’esordio, La solitudine dei numeri primi. Paolo Giordano aveva 25 anni, un dottorato in fisica delle particelle, e giurava che mai avrebbe fatto lo scrittore di profession­e: «Non posso immaginare le mie giornate in casa, davanti a un computer: diventerei pazzo», diceva. Poi però il suo libro ha venduto un milione e mezzo di copie, è stato tradotto in oltre 20 lingue, e i buoni propositi gli sono un po’ scappati di mano. «In questi dieci anni la vita mi ha chiesto di essere più assennato e saggio di quanto fossi pronto e disposto a essere. Io, che sono un tipo ubbidiente, ho assecondat­o tutte le richieste. Sono diventato uno scrittore, però per molto tempo mi sono sentito come a bordo di un’auto con il pedale dell’accelerato­re bloccato sul massimo: il mio unico compito era evitare che uscisse di strada. Poi, negli ultimi quattro anni, qualcosa è cambiato. Mi sono ritrovato nel tempo della scrittura e della vita con una calma che avevo dimenticat­o, mi sono riconnesso a qualcosa che avevo perso». Il luogo della riconcilia­zione sono state le pagine di Divorare il cielo, il suo ultimo romanzo, che ha iniziato a prendere forma nel 2014. La storia – che ha la voce di Teresa – di un amore, ma anche di un’utopia – anzi di svariate –, di illusioni e delusioni, di come alcuni di noi sono condannati a vivere con una fame che non si può placare. Ci vediamo a Torino, in uno degli ultimi giorni che lo scrittore trascorre nella sua città. «Mi trasferisc­o a Roma, ho bisogno del suo disordine. Devo solo abituarmi a quell’idea che ci sono i gabbiani: per ora mi tengono sveglio tutta la notte». Ha scritto un librone: 430 pagine di questi tempi sono un atto di ottimismo. E di coraggio. «Per anni mi hanno ripetuto che i libri non li legge più nessuno. Io volevo provare ad avvincere il lettore e tenerlo attaccato con una storia lunga». Che cos’è per lei questo libro? «È un po’ un consuntivo della giovinezza: la mia è finita, e l’ho salutata così. È la mia ricerca intorno all’idea di sacro. È un grazie a un luogo che conosco e amo, la Puglia. La sua campagna mi ha curato nei miei momenti più bui. E infine è il libro più nudo ed esposto che abbia mai scritto: volevo che la storia arrivasse senza il filtro difensivo della lingua, che ho spogliato al massimo». Si può divorare il cielo? «È una fame pericolosa: vuoi divorare il non divorabile. Dopo che ci hai provato sei ancora più affamato di prima. Bern, il protagonis­ta di questa storia, è il grande divoratore. Gli altri intorno – Teresa, Tommaso, Nicola – si nutrono dei suoi slanci. Li scambiano per vitalità, e invece sono qualcosa di molto più complesso». I suoi protagonis­ti vivono in mondi che pensano e vogliono puri e incontamin­ati, salvo poi fare delle scelte di segno opposto. «L’idea di purezza mi sembra molto contempora­nea: dal cibo bio fino al terrorismo. Così come mi sembra tipico delle vite di tutti noi passare da un ideale al suo opposto senza soluzione di continuità, decine di volte al giorno». Ma la purezza, l’autentico, esistono ancora? «Non lo so. E comunque mi chiedo se la manipolazi­one della purezza tolga autenticit­à alle cose. Prendiamo la nascita, che ci

raccontiam­o essere la cosa più “vera” che ci sia. Ma è davvero così? E una nascita figlia della procreazio­ne assistita è meno autentica?». Questa è anche la storia di una continua ricerca di una dimensione sacra. «Anche questo è un bisogno dei nostri giorni. Fino a poche generazion­i fa il sacro stava in chiesa, o nelle ideologie politiche. Ora è stato sfrattato da ogni casa, e questo rende quello in cui viviamo un tempo faticoso in cui vivere. Così ci ritroviamo a cercarlo anche nelle piccole cose, dallo yoga in giù, nei piccoli palliativi». Lei dove trova il sacro? «Nello scrivere, inteso come essere costanteme­nte in un mondo immaginifi­co. Stare altrove per me è ormai un tic nervoso: ho un tempo di permanenza nella vita reale sempre più breve». È un caso, una sfortuna, che Bern si ritrovi poi sempre in mondi imperfetti? «Dio ci scampi dai mondi puri e perfetti. L’idea di purezza ha spostato l’asse politico negli ultimi anni e, secondo me, in una direzione molto pericolosa. Un segno di maturità sia di un individuo che di una società è saper fare i conti con la non purezza ineludibil­e di tutte le cose. Bern fallisce perché il suo ideale è puro, e lui non sa venire a patti. Io sono anti ideali: questo è un libro sull’ideologia, nel senso che è totalmente contro». Chi le somiglia di più nella storia? «Tommaso, per un dettaglio: ha un modo di essere dentro gli eventi senza sentirsi mai veramente al centro. Desidera, un po’ da distante, la vitalità che vede negli altri, e che lui non può avere. Questa cosa è tipica dello scrittore: guardi e racconti; se vivessi troppo non potresti farlo». Scrivere per quattro anni lo stesso libro, non porta, almeno in alcuni momenti, a odiarlo? «Di solito arrivo sfinito al fondo dei libri, li termino con un senso di liberazion­e. Questa volta, invece, ho avuto un periodo di fortissimo smarriment­o. La storia è stato il centro di tutto, per anni, quando è finita mi sembrava di non avere più l’orizzonte successivo». Sua moglie, Raffaella Lops, è anche la sua editor. Sulla carta non sembra una cosa facile ricoprire i due ruoli. «È complicato, a volte ci sono anche dei momenti di tensione. Ma negli anni – lei è stata la mia prima editor, con lei ho scritto la Solitudine – abbiamo imparato un paio di regole fondamenta­li. La prima è che per scrivere io vado lontano da casa e così parliamo di lavoro al telefono. Questo dà a lei il tempo di capire come dire le cose, senza avere uno intorno, cioè me, che la scruta costanteme­nte; e a me dà il tempo – quando metto giù il telefono – di non avere reazioni scomposte: mi posso leccare le ferite da solo. La seconda regola è che qualsiasi scambio di materiali e opinioni non deve avvenire la sera, se no non dormo». Non sarebbe più facile lavorare con un estraneo? «Raffaella è la persona che vive con me l’intero processo creativo: gravitiamo insieme intorno alle cose. Non saprei reggere la solitudine di vivere la creazione da solo. La mia scrittura e mia moglie sono due cose che non riesco a scindere». Sua moglie ha due figli. Che ruolo si è ritagliato con loro? «Mi è sempre stata affine l’idea della paternità, intesa come cura e aiuto. Però il salto dalla teoria alla pratica è alto: ho scoperto la realtà nel suo bello inaspettat­o, e nel suo faticosiss­imo inaspettat­o. I ragazzi hanno un padre, io sono una figura altra, che può essere un aiuto ma anche una rottura di coglioni». Ed essere padre è qualcosa che desidera? «Non lo escludo, ma in questo momento so di non avere la disponibil­ità sufficient­e. Mi sento continuame­nte trascinato verso un altrove che sta nella mia testa. Ho quindi paura sia di non esserci abbastanza, sia, al contrario, che un figlio non mi consenta più di andare nel mio altrove. Sono paure infantili, ma le prendo sul serio». Pensa già al prossimo libro? «Credo che non prenderò la penna in mano per un paio d’anni. Nel frattempo vivo. E leggo libroni».

«DIO CI SCAMPI DAI MONDI PERFETTI»

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