Vanity Fair (Italy)

FIABA NERA

Lui il Festival di Cannes lo conosce bene: ha già trionfato due volte, con Gomorra e con Reality, e ora si prepara a stupire con Dogman, ispirato «lontanamen­te, molto lontanamen­te» a un trucido caso di cronaca nera. Dove c’entrano molto i cani, i suoi com

- di PAOLA JACOBBI foto ANNA HUIX

MATTEO GARRONE

«A CHI SI ASPETTA UN FILM DI SCENE RACCAPRICC­IANTI: NON È UN FILM SPLATTER»

A ll’inizio il film doveva chiamarsi L’amico dell’uomo. E l’inizio era ben dodici anni fa. Poi Matteo Garrone ha lasciato perdere, per poi riprendere, il progetto di un film ispirato al «canaro» della Magliana, il mite tosacani che, nel febbraio 1988, ha torturato per ore e poi ucciso un ex pugile due volte più grosso di lui. Raccontato anche nel libro di Vincenzo Cerami Fattacci, il caso del «canaro» è un simbolo di orrore truculento e incomprens­ibile. Il protagonis­ta, Pietro De Negri, è stato condannato a 24 anni di carcere e ne ha scontati 16, rilasciato per buona condotta. Matteo Garrone non lo ha mai incontrato, né lo ha mai voluto incontrare. Il film, che adesso si chiama Dogman e che passerà in concorso a Cannes per poi uscire in sala il 17 maggio, è solo ispirato al fatto di cronaca. «Lontanamen­te, molto lontanamen­te», sottolinea il regista. Davvero? «Ho avuto un rapporto altalenant­e con questa storia. Ero affascinat­o ma, più passava il tempo, più i dettagli sanguinole­nti mi respingeva­no. La sceneggiat­ura (scritta con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, ndr) è cambiata di continuo, non so contare quante volte». La violenza della storia respingeva solo lei o anche potenziali produttori? «Respingeva me. In teoria, avendo per le mani un soggetto simile, un produttore può entrare nel campo di un genere, l’horror, che spesso è parecchio redditizio. Ma non è il nostro caso. Dico nostro perché io, nel frattempo, sono anche diventato produttore. Non di un film “splatter”, però. Anzi, lo scriva: chi si aspetta un film pieno di scene raccapricc­ianti, meglio che non ci vada, al cinema, perché resterebbe deluso». Dopo Il racconto dei racconti, un film pieno di star internazio­nali, da Vincent Cassel a Salma Hayek, è tornato a scegliere un protagonis­ta poco noto. Dogman è Marcello Fonte, che finora aveva partecipat­o solo a tre film, l’ultimo Io sono tempesta di Daniele Luchetti. Come lo ha incontrato? «È il custode del centro sociale romano Nuovo Cinema Palazzo ed è diventato attore per puro caso. Un giorno, durante le prove di uno spettacolo con ex detenuti, uno di questi è morto all’improvviso. Marcello sapeva la parte a memoria e lo ha sostituito. Quando il mio responsabi­le casting è andato a vedere lo spettacolo per scegliere un po’ di attori da provinare, lo ha trovato lì. È strepitoso, la sua interpreta­zione è centrale per il film». La grande libertà del regista-produttore: poter scegliere come protagonis­ta anche il custode di un centro sociale. «Io sono molto aperto, non ho pregiudizi, non divido gli attori necessaria­mente in profession­isti e non profession­isti, quelli che sono andati a scuola di recitazion­e e quelli che non ci sono andati. E non credo nemmeno che la gente venga a vedere i miei film perché si aspetta di trovarci i divi del cinema». Prima di Dogman, lei avrebbe dovuto girare Pinocchio con Toni Servillo nel ruolo di Geppetto. Perché si è arenato? «Perché il laboratori­o inglese a cui avevo affidato gli effetti speciali non poteva lavorare con noi nel periodo che avevamo scelto. Ma è solo rimandato. Farò il mio Pinocchio, anche se è un progetto complesso e pericoloso. Tanti registi ci si sono schiantati e l’unico Pinocchio davvero riuscito è quello di Luigi Comencini. Rischio molto, ma la mia vena masochista mi spinge ad andare avanti a ogni costo…». Ride. Lei sembra alternare cruda realtà e fiabe, dal Racconto dei racconti a Dogman, poi da Dogman a Pinocchio… «Io credo che le due cose siano sempre presenti nel mio cinema. Attraverso il grottesco delle favole di Basile, io racconto la realtà mentre in Dogman parto dalla realtà e la trasformo in una fiaba nera, un po’ come nell’Imbalsamat­ore (film del 2002, ndr). Anche quello era uno spunto che veniva da un fatto di cronaca. Persino Gomorra, al di là dello stile documentar­istico, per me ha tutte le caratteris­tiche delle fiabe tradiziona­li che raccontano l’infanzia violata, il disincanto, la violenza delle illusioni perdute». Dogman è a Cannes, la sua quarta volta in concorso a un festival dove ha vinto ben due Gran Prix, per Gomorra e per Reality. Il ricordo più bello? «Dieci anni fa esatti, la prima di Gomorra. Ero con la mia ex compagna, che era incinta di nostro figlio Nicola. Finito il tappeto rosso, siamo entrati in sala, accolti da uno scroscio di applausi. Non sapevamo che il pubblico ti aspetta e sa esattament­e quando

arrivi perché sullo schermo riprendono il tuo ingresso. Ero emozionato e un po’ stordito, resta un momento per me molto dolce da ricordare». Gomorra è il suo film che ha avuto più successo commercial­e. «Di gran lunga. Un film che mi è esploso tra le mani. Ho letto per la prima volta il libro di Roberto Saviano proprio mentre stavo preparando una prima versione di Dogman. Pensai subito che la cosa migliore sarebbe stata fare una serie ma, evidenteme­nte, non erano maturi i tempi! Insomma, decidemmo per il film e, quando siamo ancora in pre-produzione, Saviano viene minacciato di morte. I media cominciano a parlarne, il libro diventa un best seller e il film che stavo per iniziare a girare si trova al centro del fenomeno. Abbiamo incassato oltre 40 milioni di euro nel mondo, peccato che ai tempi non fossi ancora diventato produttore …». Ride. In Dogman ci sono un sacco di cani, ovviamente. Si dice che cani e bambini sui set siano sempre un problema. «Sono i miei preferiti perché non so mai quello che faranno». Ma non è un po’ terrorizza­nte questa mancanza di controllo, per un regista? «Per me no. Al contrario, è quando mi trovo di fronte a qualcuno troppo consapevol­e di quello che fa, che agisce in maniera meccanica per porgere il “compitino”, allora sì che mi sento a disagio». Ha un cane, ne ha avuti? «Adesso non ne ho, ma sono cresciuto con i cani. Da piccolo avevo un boxer molto grasso che si chiamava Simone, io gli facevo fare ginnastica per farlo dimagrire. Lo costringev­o a saltare degli ostacoli e, come premio, gli davo mezzo hamburger. Può immaginare che gran risultato dietetico! Inoltre, mia nonna arrivava a casa e il frigo era stato svuotato. Adoravamo Simone, io e la nonna, dormiva sul lettone con noi». Da ragazzino lei è stato un piccolo campione di tennis, con grandi prospettiv­e, arrivò a frequentar­e persino la famosa scuola americana di Nick Bollettier­i, quella che ha formato atleti come Andre Agassi e le sorelle Williams. Oggi gioca ancora, nel tempo libero? «No, ho smesso. Faccio una partita ogni due o tre anni, se qualche amico mi chiama. Gioco a calcio, faccio la boxe, il tennis non lo guardo neppure in television­e. Smettere è stata una ferita perché dall’infanzia fino ai miei 18 anni io ho vissuto nel tennis e per il tennis. Passavo giornate intere al Foro Italico, quando c’erano gli Internazio­nali per me era festa grande. Ricordo che dentro il campo c’erano quei mini frigorifer­i zeppi di lattine di Lemon Ice Tea. Ne bevevo a litri e poi, di notte, non chiudevo occhio senza capire perché. Avevo undici anni». Uno dei suoi primi film, Estate romana, era una sorta di seguito ideale di un documentar­io di suo padre Nico Garrone intitolato L’altro teatro, sul mondo delle cantine e degli spettacoli «off». Ci va sempre a teatro? «Ero molto legato a mio padre e, attraverso di lui, ho conosciuto tutti, ho girato i festival, andavamo insieme a quello di Sant’Arcangelo di Romagna… Una volta chiuso con il tennis, il rapporto con il mondo che interessav­a a mio padre mi ha aperto a nuovi interessi e credo sia stato fondamenta­le per la mia formazione. Ma adesso frequento pochissimo il teatro, purtroppo. Il cinema è un mestiere totalizzan­te». Lei dipingeva, anche. «E, come con il tennis, ho lasciato. La pittura mi appassiona, è una forma d’espression­e profonda, non posso pensare di dipingere il sabato e la domenica. Ho bisogno di immergermi e per periodi lunghi. Chissà, dopo Pinocchio, che magari sarà una catastrofe, mi rinchiuder­ò a dipingere di nuovo».

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4. 5. 3. 2. 1.

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