IL DESTINΟ IN UN NΟME
La madre, Meg Ryan, è già nella storia del cinema per una scena comica che Jack Quaid ha aspettato un bel po’ prima di vedere (e poi ha pianto). Anche il padre Dennis è un divo di Hollywood. Ora è il suo momento, con due film di successo. In piccoli ruoli
Quando arrivo al The Jeremy Hotel di Los Angeles per incontrarlo, il servizio fotografico è in pieno svolgimento. Mi metto in un angolino ad aspettare, ma dopo neanche cinque minuti Tommaso, il fotografo, mi chiama: «Vieni, Jack vuole presentarsi». Mi aspetto una stretta di mano. Vengo accolta da un abbraccio. Inevitabilmente nella mia mente scatta il primo momento di stupore. Molti altri ne seguiranno. Jack Quaid sembra educato, gentile, ironico, disponibile. Impossibile non pensarlo. Ammesso che il cliché che vuole i figli di leggende del cinema viziati e altezzosi sia vero, Jack Quaid ne è chiaramente l’eccezione. Figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid, al quale assomiglia in modo impressionante, nato nel 1992 e quindi cresciuto negli anni in cui i genitori erano una delle coppie più in vista di Hollywood e sua madre la regina della commedia romantica, Jack ha deciso da subito di evitare le scorciatoie, ma di fare quello che tutti gli attori seri sanno di dover fare: la gavetta. Nel 2012, la prima parte è quella di Marvel in Hunger Games. Seguono vari cortometraggi e esperienze televisive non felicissime (era nel cast di Vinyl, serie di Hbo chiusa dopo una sola stagione), fino ad arrivare a quest’anno, che ha tutta l’aria di essere quello giusto. Un po’ per istinto, un po’ per fortuna, Jack è in ben due film di enorme successo, anche se molto diversi: Rampage - Furia animale, campione di incassi fino a due settimane fa, prima dell’arrivo di Avengers, e La truffa dei Logan, diretto da Steven Soderbergh, in arrivo il 31 maggio, dopo aver ricevuto ottime critiche negli Stati Uniti. Nel futuro, c’è invece ancora televisione con The Boys, progetto di Amazon Studios che mescola poliziesco a supereroi. Diventare attore è stato quasi obbligatorio per lei? «L’ho voluto per molto tempo perché pensavo fosse una cosa divertente, ma il momento in cui ho veramente deciso che sarebbe diventata la mia professione è stato dopo il mio primo spettacolo, intorno ai 13 anni, Sogno di una notte di mezza estate. Ricordo ancora la soddisfazione per essere riuscito a far ridere gli spettatori. Lì ho pensato: voglio farlo ancora. È stata la mia fortuna: ho amici che ancora oggi non sono sicuri di quello che vogliono fare. Io l’ho avuto chiaro da subito». I suoi genitori sono stati contenti della scelta? «Sì, ma penso che mi avrebbero supportato in qualunque caso. Non mi hanno mai fatto quei discorsi tipici da attori che ti mettono in guardia su quanto la professione sia instabile e difficile». Da bambino sapeva che cosa voleva dire fare l’attore? «Ne avevo una vaga idea. Andavo sui set a trovare i miei genitori, guardavo due scene e poi andavo alla postazione cibo dove mi davano le caramelle. Che cosa volesse dire fare davvero l’attore l’ho scoperto sui set in cui ho lavorato, film dopo film. Sto ancora imparando». Come è stata la sua infanzia? «Per niente glamour. Privilegiata sì, ovviamente, ma non ciò che la gente identifica con hollywoodiana. Anzi, spesso avere genitori famosi non fa che peggiorare quelle minime brutte figure che altrimenti potrebbero passare inosservate. Come quella volta in cui mia madre, in un supermercato, prese dei preservativi e li sventolò urlando il mio nome proprio mentre stavo parlando con una ragazza. Con una madre normale sarebbe stato un episodio magari imbarazzante, ma innocuo. Con una madre famosa ho potuto leggere il disgusto negli occhi della ragazza, una cosa del tipo: ah, i soliti attori di Hollywood depravati». Negli anni ’90 i suoi erano materia da tabloid. «La loro fama non ha mai inquinato la nostra vita familiare. Forse anche perché all’epoca la situazione era ancora sotto controllo e loro erano bravi a proteggerci». Neanche durante il divorzio è stato difficile? «Lì un po’ sì. Avevo otto anni, ricordo che un giorno vidi in edicola la copertina di un giornale con le foto dei miei e lo strappo in mezzo, sa quell’effetto che fanno per dire che la coppia è scoppiata? Ecco, quello mi fece soffrire: sapere che qualcuno stava facendo soldi sul dolore della mia famiglia mi fece star male. È capitato altre volte di leggere cose poco carine su mia madre. Da figlio maschio, ho sempre avuto una relazione viscerale: guai a chi la tocca!». Ora che è attore, non teme che quel tipo di attenzione un giorno capiti anche a lei? «Credo che ci sia ancora differenza tra essere un attore e una celebrity. Non credo di far parte della seconda categoria, non sono così famoso. Ricordo una volta a Londra, con mia madre e Tom Hanks: non riuscì a fare neanche un isolato a piedi senza essere seguito da una folla di fotografi e curiosi. Lui, gentilissimo, si fermò a parlare con tutti, ma io pensai che quel livello di fama lì forse non lo avrei voluto». Con Rampage e La truffa dei Logan questo sembra essere il suo anno. Fortuna o pianificazione?
«Ho in entrambi parti piccole, soprattutto in Rampage, dove ci sono solo all’inizio, ma fa sicuramente piacere far parte di un progetto arrivato così in alto. È un film divertente: cosa c’è di meglio di animali giganti che distruggono Chicago? Tra l’altro è basato su un videogame a cui giocavo molto da ragazzo, quindi è come un cerchio che si chiude». Il suo personaggio, Connor, è molto sicuro di se stesso. «Persino troppo. Infatti nel film non muoio, ma forse dovrei, forse me lo meriterei. È stato divertente interpretarlo perché io non sono per niente così, non ho quella spocchia». Nella Truffa dei Logan le confesso che non l’avevo del tutto riconosciuta. «Nessuno l’ha fatto! Sono pieno di tatuaggi, porto una parrucca, ho i denti più gialli, le occhiaie. Devo ammettere che è liberatorio recitare una parte dove non devi per forza essere al tuo meglio dal punto di vista estetico». È una parte che ha voluto? «Sì, ma non sono ancora a un livello di carriera dove posso decidere io. Faccio audizioni e spero vadano bene. Ultimamente sono stato molto fortunato». Anche lei come molti attori detesta le audizioni? «Non è un processo particolarmente piacevole, lo ammetto. Ma sono migliorato. Anni fa ho scritto un cortometraggio e ho fatto io il casting degli attori, quindi per la prima volta mi sono trovato dall’altra parte: ero io a dire sì o no a chi si presentava. Lì ho capito che non è mai questione di bravura, conta quanto tu sei adatto per quella specifica parte, contano l’energia e l’aspetto generale. Se pensi così allora accetti di più i rifiuti. Ora quando non ottengo una parte non penso mai “non sono stato abbastanza bravo”, ma “non ero quello che cercavano”. Le assicuro che è molto meglio così». C’è ancora qualcuno che la riconosce per Hunger Games? «Ho scoperto una cosa: quel film ormai è un classico e i ragazzini di solito lo guardano al compimento dei 13/14 anni. Quindi ogni anno c’è una ondata nuova di bambini che mi odia, visto che il mio personaggio uccide una innocente. L’ultima è stata mia sorella Daisy (la bambina adottata da Meg Ryan nel 2006, ndr): l’altro giorno al telefono mi ha detto di aver visto il film con i suoi amichetti e che ora tutti mi odiano». Una commedia romantica la farebbe? Sua madre ne è stata la regina. «Sa che non avevo mai visto Harry ti presento Sally? Essendo mia madre la protagonista della scena di finto orgasmo più famosa del cinema ho sempre voluto evitare. Poi, siccome anche io ho girato una commedia, ho deciso di vederlo, per capirne il tono e i tempi comici. Ovviamente l’ho adorato. Ho chiamato mia madre e ho pianto per un’ora». Ha pianto? «Sì, mi sono proprio commosso. Mia madre in quel film è bellissima e di una bravura straordinaria e mi sono sentito così orgoglioso di lei, così fiero». Le stanno venendo gli occhi lucidi? «Capisce? Mi commuovo anche solo a parlarne». Styling David Thomas. In questa pagina: camicia e pantaloni, Lanvin. Pagg. 94-95: abito, Givenchy. Camicia, Haider Ackermann. Pag. 96: giacca, Gucci. Camicia, Comme des Gar•ons. Grooming Matthew Collins. Si ringrazia per l’ospitalità l’hotel The Jeremy, Los Angeles.