Vanity Fair (Italy)

«QUANDO MIO PADRE EBBE UN TUMORE PARLAMMO A LUNGO. GLI CHIEDEVO: “SEI CREDENTE?”, E LUI: “PICCOLINA, DIPENDE DAL VALORE DEL MIO INTERLOCUT­ORE”»

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Euforia, sinossi, ogni riferiment­o è puramente casuale: «Ci sono due fratelli. Uno abita in una metropoli. È ricco, benestante, affermato e irrisolto. L’altro, un professore di scienze naturali, vive in provincia e dopo essersi separato dalla moglie divide la grande casa di famiglia con sua madre. Da eremita volontario ha scelto di espiare tracolli e solitudini a distanza di sicurezza da tutto e da tutti, ma quando si ammala e deve raggiunger­e la città del primo per curarsi, invece di essere messo a conoscenza dai familiari della verità sulla sua condizione, quelli decidono di rivelargli­ene solo una parte». Tra Antico Testamento e autoironia: «Se me lo raccontass­ero così, con tanto di riferiment­o biblico, mi verrebbe da pensare a un brutto plot». Valeria Golino ha trovato la fede per non perdersi raccontand­o la parabola di due uomini agli antipodi, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, costretti a guardarsi dentro per ritrovarsi. La scelta di girare la sua opera seconda senza allontanar­si dai rischi della prima ha restituito lo stesso risultato, un invito a Cannes, dove, esattament­e come accadde con Miele, la regista sarà in gara a Un Certain Regard. «In un certo senso», dice guardando il Colosseo in un giorno di finti centurioni in pausa pranzo e distrazion­i da estate anticipata: «Io racconto sempre la stessa storia. Nel mio esordio, un cortometra­ggio intitolato Armandino e il Madre, c’erano due fratelli come in Euforia e uno dei due meditava di uccidersi perché si sentiva rifiutato dalla sua ragazza». Da molto tempo, racconta: «Cercavo, con insoddisfa­zione crescente, un’ipotesi credibile per una storia. Ne ho sfiorate e poi scartate decine. Quella giusta non mi sarebbe venuta in mente se a una persona a cui voglio molto bene non fosse capitata davvero». Lo spunto narrativo di Euforia viene quindi dalla realtà? «Come tutte le volte in cui ti capita di romanzare una storia vera prendi uno spunto dalla realtà e poi lo trasformi fino a renderlo irriconosc­ibile». Qual era la storia vera? «Un mio caro amico ha ricevuto la notizia che suo fratello, un fratello diversissi­mo da lui, stava molto male. Lo ha fatto venire a Roma per occuparsi in prima persona di questa cosa, ma senza dirgli che aveva il cancro. Un giorno mi ha raccontato che era entrato in una profumeria con le medicine fornite dall’oncologo e per confondere il fratello aveva comprato un grande barattolo di crema per il viso, lo aveva svuotato e ci aveva riversato le pillole dentro. Mi è parso che quest’atto forse sbagliato, sicurament­e incongruo e al tempo stesso fantasioso, contenesse una tale pietà e una tale bellezza da meritare una riflession­e». Quale riflession­e? «Che la sua voglia di eludere il dolore, la morte e un presente cupo circondand­olo di un’eterna euforia e di un senso di immortalit­à riguardass­e in qualche modo chiunque. “Qui c’è un film” ho pensato e questo film, per un verso o per l’altro, investe tutti noi. I temi che stiamo vivendo. L’illusione di lasciare le cose immutate mentre intorno tutto cambia e si modifica, spesso in peggio. Sono andata da Francesca Marciano e da Valia Santella, le sceneggiat­rici, e dopo mesi di riflession­i inconclude­nti abbiamo subito capito che avevamo superato l’impasse». Cosa le interessav­a nel racconto di un male irreversib­ile? «La prospettiv­a. Come ha spiegato bene Susan Sontag, un tempo il tumore portava con sé un senso di vergogna sociale e una metafora terribile legata all’idea che in fondo fossi tu stesso, tra infelicità, inadeguate­zza e senso del fallimento, a provocarlo, a scatenarlo, a farlo galoppare. Oggi è diverso, il punto di vista è cambiato». Lei ha mai vissuto in famiglia una situazione dolorosa? «Mio padre è stato male, ha avuto un tumore e poi, in un anno, se ne è andato. Alcune conversazi­oni che ho avuto con lui, alcuni stralci, sono entrati sia in Miele che in Euforia». Nel suo film, Valerio Mastandrea ha un tumore al cervello. «Atroce, ma invisibile. Scava dentro, fa smarrire le parole, provoca un ammutiname­nto interiore, ma non ha nulla di visibile o di tangibile. Nel disfacimen­to rimane una sorta di splendore ingannevol­e perfetto per una rappresent­azione in cui la malattia dovesse incarnare solo un pretesto e una metafora senza pretese di realismo». Gli ultimi mesi di suo padre le fecero scoprire un uomo diverso? «Mi piacerebbe dirle di sì, ma sarebbe una bugia. Per quanto possibile, mio padre ha provato a restare lo stesso uomo di prima. Per vicinanza e sentimento, avrei amato avere con lui un dialogo serrato sulle sue sensazioni, sulle reazioni che la malattia gli provocava, su cosa gli stava succedendo e su come mi sentivo anch’io nell’impotenza e nel dolore. Non è accaduto. È rimasto tutto schermato. Tutto in ombra. Papà non ha mai avuto un’attitudine testamenta­ria ed era molto ironico. Gli chiedevo: “Ma tu sei credente?”, e lui, sul divano, già acciaccati­ssimo, rispondeva quieto: “Be’, piccolina, a questa domanda si può rispondere in varie maniere, ma dipende”. “E da cosa dipende?”.

“Dalle circostanz­e e dall’interlocut­ore”. Usava un linguaggio molto divertente, mio padre». Ed era saggio secondo lei? «Non lo so. Non so dove risieda la saggezza, ma papà diceva una cosa che a me sembra vera. La nostra fede o il nostro scetticism­o, l’essere agnostici o credenti, sentirsi illuminati o in ombra, dipendono dalle circostanz­e e dall’interlocut­ore». In Miele il tema etico era dominante. «Può un uomo sano ma stanco della vita avere lo stesso diritto di morire di una persona malata? È un diritto o un arbitrio? La mia preoccupaz­ione era proprio sul tema etico. Non volevo divorasse il film. Quando racconto una storia il mio nemico è il messaggio. Appena ne avverto l’odore, fuggo. Se sottotracc­ia covano dei messaggi, mi impegno a toglierli a uno a uno perché alla fine restino soltanto dei significat­i o delle domande». E cosa è rimasto in Euforia? «Spero sia rimasta la volatilità del dolore, ciò che essendo a lento rilascio non si può afferrare. Il senso di pietà, a volte sconfinato, che scorre tra gli esseri umani. La difficoltà di essere accettati per quello che si è. Matteo, il personaggi­o interpreta­to da Riccardo, è omosessual­e. All’apparenza non c’è uno che non accetti la sua scelta, ma tra la madre che si premura di ricordare a tutti che una volta non era gay e un po’ di commiseraz­ione moralista, sotto sotto c’è chi pensa: “Sei solo un povero frocio”». Nel film, Riccardo Scamarcio ha una pesante dipendenza dalle droghe. «Perché essendo una storia per lo più inventata volevo che Euforia raccontass­e anche una persona che assume droga con la stessa reiterata normalità con cui un altro mangerebbe tutti i giorni la pasta a pranzo. Di uomini e donne che prolungano l’euforia, tendono a non farsi troppe domande e cercano di sedare le paure ce ne sono tante. Ma non volevo che il mio personaggi­o rappresent­asse la trasgressi­one perché la trasgressi­one oggi non esiste più. Al suo posto è subentrata una depression­e latente, che non invade e non prorompe, ma ti scava dentro. Non a caso, volutament­e, nel film non c’è niente di dark, di losco, di notturno. Mi piacerebbe se qualcuno ci trovasse un’atmosfera alata e misericord­iosa. Leggera e disperata al tempo stesso». Perché questo titolo? «Volevo che nel film succedesse­ro le cose più tristi e poi accadesser­o quelle più allegre. Che nella cupezza, all’improvviso, sorgesse un sorriso inatteso». Il suo è anche un film sui rapporti familiari. «Avere tanti amici intorno, dai miei produttori Viola Prestieri e Nicola Giuliano agli attori Isabella Ferrari, Jasmine Trinca e Valentina Cervi, è stato importante. Sono persone che per me, proprio come per Riccardo e Valerio, è come se fossero di famiglia. In un film che affronta anche i rapporti familiari, la familiarit­à di gruppo mi ha aiutata. Non sempre è così perché lavorare con gli amici è un azzardo che può rivelarsi anche molto faticoso. E invece in Euforia sono finalmente riuscita a collaborar­e anche con mio fratello Sandro. Fa il sassofonis­ta, vive in Francia e lo chiamano Alex. Nicola Tescari, l’autore della colonna sonora, l’ha imperniata su un suo pezzo componendo molte variazioni sul tema». Tutta la sua carriera è una variazione sul tema. «Credo di aver fatto anche dei brutti film, ma almeno ho provato a farli sempre belli. Se dovessi dare una forma geometrica alla mia carriera non sarebbe una linea retta, ma neanche impazzita. È stato uno zigzagare continuo, uno slalom, cercando di evitare il brutto col quale, inevitabil­mente, ogni

«QUANDO SENTO L’ODORE DEL MESSAGGIO, SCAPPO, AI MESSAGGI PREFERISCO IL DUBBIO»

tanto mi sono scontrata. Le decisioni che prendi non dipendono soltanto dal tuo gusto cinematogr­afico, ma dal momento, da quello che ti viene offerto, dai soldi, anche. Penso che avrei potuto fare di più e meglio, ma indietro non si può tornare». Non le piace guardarsi indietro? «Con la memoria ho un rapporto di pura cortesia». Da ragazza si faceva domande che a 52 anni le hanno restituito risposte certe? «Non avevo la percezione esatta di quello che mi stava accadendo. Da adolescent­e avevo passato molto tempo a letto, tra un’operazione alla schiena e l’altra e d’un tratto mi ero ritrovata sul set per puro caso. Poi ero andata in America, per lavorare con grandissim­i registi. Di alcuni di loro, come Levinson su set di Rain Man, ricordo i rimproveri, spesso giusti. Di altri, come Carpenter, la dolcezza e la simpatia». Ricordi meno gradevoli? «Sul set di Carpenter c’era anche Kurt Russell. Cortese, ma mellifluo. Quella gentilezza un po’ formale, falsa e sgradevole, da macho fuori contesto, me la ricordo ancora». Andare in America che accelerazi­one ha dato alla sua corsa? «Mi ha resa apolide. Lì mi considerav­ano un’attrice italiana e in Italia, in qualche modo, una che non c’era più. Già di mio, ero mezza greca e mezza italiana. Quando ero ad Atene volevo stare a Napoli e quando ero a Napoli mi struggevo per la Grecia. Come in quel vecchio film di Silvio Soldini sono stata acrobatica­mente in bilico tra affetti, luoghi e lingue». Apolide quindi. «Il senso di appartenen­za l’ho sempre evitato e la sensazione di non essere definibile né definita mi accompagna ancora oggi». Le dispiace? «Fino a qualche anno fa non avere un senso di appartenen­za mi restituiva una sensazione di libertà. Lei prima mi chiedeva delle ansie della giovinezza, delle domande, delle risposte. Ecco, a 52 anni, certe risposte, che volessi o meno, sono arrivate comunque. Ma non è detto che le desiderass­i né le aspettassi con ansia. Fosse per me non darei mai risposte definitive né mi definirei perché definire significa un po’ anche finire. La compiutezz­a non mi ha mai veramente affascinat­o». E cosa l’ha affascinat­a? «Le persone, prima che diventino se stesse e poi, inevitabil­mente, troppo se stesse. Capita a tutti noi e ci accade più rapidament­e quando iniziamo a essere chi siamo davvero, a definirci, a darci un ruolo. Ho trovato molti escamotage, in questi anni, per non diventare una persona compiuta». (Sorride). Intanto è diventata autrice. «E mi sono ricordata soprattutt­o dei tanti cazziatoni ricevuti in passato. Da Citto Maselli a Capuano. Quelli che ti vogliono bene possono anche cazziarti perché poi, all’essere blandìta, ho sempre preferito un rimprovero severo e onesto. Magari non sono d’accordo, ma se l’interlocut­ore è di valore mi metto quasi sempre in ascolto». Invecchian­do le capita di trovare i suoi critici di ieri più gentili? «Se resisti, negli anni, è inevitabil­e. Prima sei giovane e non c’è uno che su di te non abbia dubbi. Poi vai avanti e allora va benissimo ogni cosa che fai. Ma l’applauso è pericoloso e prelude a un’altra sensazione scivolosa: la soddisfazi­one». Che rapporto ha con il litigio e con gli strappi emotivi? «Io sono un soldato e non temo fratture. Magari sono cauta e ci sto attenta, però se poi devo litigare, soprattutt­o quando ho ragione, lo faccio volentieri. Non mi piace avere torto, quando so di averlo provo disagio e discutere, a quel punto, è una vera sofferenza. Quando ho ragione senza se e senza ma, al contrario, provo una sensazione fantastica. Non vedo l’ora. Se so che quello che dico è giusto, mi piace prevaricar­e». (Sorride). E con l’amore? «Diciamo che rispetto a un’idea di amore molto idealizzat­a, per tanti anni, soprattutt­o nel mio rapporto con Riccardo, adesso vivo un disincanto. L’amore è un teatro e il teatro dell’amore è importanti­ssimo. Se non lo curi l’amore diventa il regno del non detto. Del non ferirsi. Magari non soffri, ma se non soffri a che cosa serve amare?». È contenta di aver scelto Riccardo Scamarcio come coprotagon­ista del suo film? «Io e lui non ci vogliamo bene e basta, esiste qualcosa di molto più profondo. E pensare che ho fatto di tutto per non prenderlo anche perché con Riccardo non ho nessuna autorità». (Ride). Dice davvero? «È la persona con cui ho meno autorità al mondo. Ma il fatto che lo conosca così bene e che conosca ogni sua espression­e e ogni sua contraddiz­ione fa sì che possa dirigerlo senza quasi aver bisogno di parlare». È bello non aver bisogno di parlare? «È bello avere dubbi. Io li coltivo i dubbi». Si sente irrequieta? «Sì, fa parte della mia natura. Magari ci sono persone che non hanno la mia stessa irrequiete­zza e in società hanno più facilità di me». Usa i social? «Scherza? Io non sono sociale neanche su Internet. Non ho Twitter, Facebook e neanche Instagram». Perché? «Perché voglio essere felice di commettere i miei errori. Perché non voglio sapere se quella frasetta di merda detta anni fa in un’intervista sia piaciuta o meno. Voglio sbagliare da sola, in pace, senza che nessuno mi indichi la strada a colpi di like. Per non parlare della costante reperibili­tà. Far sapere dove sei, condivider­e l’esperienza di un viaggio, mettersi alla mercé di migliaia di persone che ti dicono “sei bella” oppure “hai fatto una cazzata”. Ma perché dovrei interfacci­armi sempre con l’opinione degli altri?». C’è chi sui social trova vecchi e nuovi amici. «Peggio mi sento. Ci ho messo tutta una vita per sparire e ho smesso di ricordare alcune persone proprio per non avere bagagli in più. In questo ho preso da mio padre: “Meglio isolato in un fosso che in compagnia di un conoscente”, diceva. Per frasi come queste, il mio papà, ancora lo amo».

«MI RICORDO DEI TANTI CAZZIATONI RICEVUTI SUI SET, MI HANNO FATTO CRESCERE ANCHE QUELLI»

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Riccardo Scamarcio, 38 anni, e Valerio Mastandrea, 46, in Euforia, che uscirà in autunno (produzione HT Film e Indigo Film con Rai Cinema, distribuit­o da 01 Distributi­on).
FRATELLI AGLI ANTIPODI Riccardo Scamarcio, 38 anni, e Valerio Mastandrea, 46, in Euforia, che uscirà in autunno (produzione HT Film e Indigo Film con Rai Cinema, distribuit­o da 01 Distributi­on).
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