LA TERRA DEI SOGNI INFRANTI
Il padre di mio marito arrivò negli Stati Uniti da immigrato. Lo fece a sedici anni, e non prese mai il diploma superiore. Sposò la figlia di un immigrato, e neppure lei prese il diploma superiore. I loro quattro figli avrebbero tutti conseguito varie lauree specialistiche, costruendosi una solida vita da ceto medio. Mio marito è cresciuto in un’epoca nella quale l’America sembrava ancora – e lo era – la terra delle opportunità. Impegnandoti a fondo nel lavoro, potevi innalzare il livello sociale della tua famiglia. Ciò che è cambiato, dai tempi in cui arrivò la famiglia di mio marito, è la semplice e concreta realtà di fatto che i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. Impegnarsi nel lavoro, di questi tempi, non garantisce il passaggio a una diversa classe sociale. Può anche voler dire guadagnare a malapena quanto basta per sopravvivere. Costa tutto di più: automobili, assicurazioni sanitarie, frigoriferi, affitti, case. Il prezzo di queste cose è salito più del tenore di vita, tanto che chi si trova in fondo alla gerarchia sociale, pur lavorando duramente, rischia di rimanere in fondo. Un esempio concreto: io vivo a New York, e la donna delle pulizie di una mia amica — la chiamerò Ana — viene dal Messico. Non sappiamo se sia o meno un’immigrata regolare; la mia amica non gliel’ha mai chiesto. Ana ha un marito e due figlie che frequentano le superiori, entrambe con ottimi risultati. Di recente la maggiore le ha detto: «Voglio fare il medico». La madre le ha risposto: «Ci riuscirai». E può darsi che ci riesca. In tante altre zone del Paese, però, per la figlia e per Ana sarebbe tutto molto più difficile. Pochi altri posti, al di fuori di New York, offrono l’asilo gratuito per i bambini, e in molti — a seconda dello Stato — ad Ana verrebbero chiesti i documenti. Se la sua presenza nel nostro Paese non fosse regolare, non avrebbe diritto ad alcun servizio. Potrebbero perfino cercare di deportarla. In molte parti degli Stati Uniti è vietato l’uso in classe di lingue diverse dall’inglese, e non esistono le sovvenzioni per asili e babysitter di cui Ana si è servita a New York quando le figlie erano piccole. Indipendentemente dalla regolarità della sua posizione, inoltre, Ana non potrebbe accedere al Medicaid (il programma che aiuta alcune fasce di popolazione a basso reddito a sostenere i costi dell’assistenza sanitaria, ndt). È la peculiarità di questi Stati «Uniti»: non sono poi così uniti. Le questioni di classe, nel momento in cui un numero sempre maggiore di cittadini meno abbienti fatica ad arrivare a fine mese, si fanno più pressanti. E se ne cominciano a vedere i riflessi politici, laddove il denaro con cui è oggi possibile alimentare le campagne elettorali sta trasformando nel profondo il modo di fare politica in questo Paese. Ora che i miliardari, progressisti e conservatori, sono in grado di finanziare le campagne in modo anonimo, per gli elettori americani diventa spesso impossibile ricevere le informazioni di cui hanno bisogno. Che disastro abbiamo intorno! A sud come a nord spuntano le bandiere confederate (un richiamo agli stati schiavisti durante la Guerra di secessione americana, ndt). La rabbia ha preso il posto del dialogo. E a dominare la comunicazione mediatica è il senso di superiorità morale di chi si professa detentore della propria verità. Il Paese appare diviso lungo un confine più nettamente politico, che va al di là delle questioni di classe. Il nostro è un Paese ancora giovane, e mi ripeto che abbiamo già attraversato momenti difficili, e che supereremo anche questo. Ciò che al momento più mi rattrista è constatare quante persone, nella classe lavoratrice, abbiano deciso di votare per un governo che, evidentemente all’insaputa dei suoi stessi elettori, rema contro i loro interessi. Ma Ana no. Lei lo sa. E io spero che sua figlia riesca a diventare medico. (traduzione di Matteo Colombo)