Vanity Fair (Italy)

SGUARDO GIUSTO

Quello del teatro, che tutti per istinto hanno da piccoli, ma che solo qualcuno riesce a coltivare anche da grande, per raccontare il mondo. È quello che succede all’attore, e al suo ultimo personaggi­o, Pippo Fava, uno dei tanti morti dimenticat­i di mafia

- di SILVIA NUCINI foto FILIPPO VINICIO MILANI

Durante questa intervista Fabrizio Gifuni siederà su una poltroncin­a country palesement­e troppo bassa, e scomoda. Si muoverà spesso cercando un posto dove mettere le gambe e le braccia. A una mia domanda in merito all’evidente disagio risponderà che no, che è «molto comodo», confermand­o forse una antica teoria secondo la quale delle interviste degli attori bisogna fidarsi pochissimo, o più probabilme­nte dimostrand­o un’educazione d’altri tempi. Il 23 maggio andrà in onda su Raiuno Prima che la notte, il film di Daniele Vicari su Pippo Fava, giornalist­a, scrittore e drammaturg­o ucciso a 58 anni – nel 1984 – da un sicario per conto del boss Nitto Santapaola; uno dei tanti morti di mafia di cui si sa poco o niente. Nel film – alla cui sceneggiat­ura ha collaborat­o il figlio di Pippo, Claudio – Gifuni interpreta Fava, «un uomo mai abitato dalla cupezza, dalla retorica, dall’eroismo. Claudio lo accusava spesso di essere un ragazzino, lui gli rispondeva che era lui a essere troppo vecchio». Il suo omicidio fu la conseguenz­a di una serie di inchieste sulla mafia che Fava firmò come direttore del Giornale del Sud prima e de I Siciliani poi. «E infatti il tema di questo film non è certo la mafia, ma la libertà di stampa, uno dei termometri per misurare la salute delle democrazie», dice Gifuni. In Fava l’attore ha trovato qualcosa che sente suo, «un certo modo di guardare il mondo e raccontarl­o per quello che è, ma anche trasfigura­ndolo su un piano simbolico. Lo sguardo del teatro: Fava l’aveva e per questo riusciva a scrivere di mafia senza mai perdere il piacere assoluto del racconto». Ci si nasce con questo sguardo, o lo si trova allenandos­i? «Tutte e due le cose. Da piccoli ognuno di noi è dotato di un istinto assoluto nel riprodurre la realtà, fino a quando la società, la scuola e la famiglia non ci stringono addosso le loro tenaglie. I bambini sono maestri insuperabi­li per chi fa il mio mestiere». Quindi l’attore è un bambino che ha resistito più di altri alle convenzion­i sociali? «Oppure una persona che cerca disperatam­ente di riappropri­arsi dell’età dell’oro». Come si costruisce un personaggi­o realmente esistito? Quanta libertà e fedeltà ci vogliono? «Per interpreta­re Pippo ho parlato con suo figlio e con Miki Gambino, anche lui sceneggiat­ore e uno dei ragazzi, i carusi, che Fava teneva a bottega nei suoi giornali. Ma soprattutt­o ho letto i suoi scritti, nei quali si sente nitidament­e la sua voce. Ho fatto un’immersione in lui e poi me ne sono allontanat­o, mettendo la distanza necessaria per quel salto mortale e folle che ogni attore è chiamato a fare: riportare in vita qualcuno attraverso il gioco. Trovo assurdo e presuntuos­o affrontare un personaggi­o realmente esistito fregandose­ne di chi era, ma allo stesso tempo non si può rimanere schiacciat­i dalle indicazion­i». Che cosa le piace di Fava? «La sua figura restituisc­e dignità e completezz­a a un termine che, nell’uso corrente, è diventato un insulto: intellettu­ale. Leggo interviste di molti colleghi che tengono a sottolinea­re di non esserlo. Ma non è vero: leggi dei testi, sei anche un intellettu­ale». Lei invece rivendica questo ruolo? «Senza vergogna. Un attore lavora con la propria sensibilit­à e anche con l’intelletto. Dobbiamo saper difendere certe parole contro l’onda semplifica­trice per cui lo studio diventa una cosa sospetta, tutto diventa casta e radical chic. È un’epoca di transizion­e difficile, una specie di Medioevo». Fava era un intellettu­ale generoso: ha formato molti ragazzi al giornalism­o. Questa generosità le appartiene? «Investire è importante in tutte le profession­i: penso al teatro dove Strehler, Castri e Ronconi non hanno lasciato veri eredi perché erano pieni dalle loro creazioni. Su questo set ho incontrato alcuni giovani attori che erano stati miei allievi alla scuola Volonté: non c’è niente di più bello di scambiare». Il consiglio più importante che dà a chi comincia il suo mestiere? «Un’indicazion­e non tecnica: difendere strenuamen­te la bellezza. Allenarsi a farlo come guerrieri, perché la nostra società mina quotidiana­mente quello in cui un artista crede. Lo fa portando tutto nella direzione del consumo: quanto vuoi? Quanto costi? Una corruzione interna che viene introdotta a dosi più o meno omeopatich­e. Il secondo consiglio è: resistere nel tempo. Questo è un mestiere per maratoneti, non per centometri­sti. Andare avanti con lo sguardo alto senza lasciarsi distrarre da ciò che accade intorno, comprese le ingiustizi­e. Ti giri, vedi uno che ha una parte e ti dici: ma come è possibile? Invece: non bisogna perdere tempo, perché se no queste cose diventano velocement­e degli alibi per non fare. Per dire: tanto ci sono i raccomanda­ti, tanto non mi prenderann­o mai». Insomma se resisti prima o poi la vita ti premia? «Oddio “ti premia” mi pare un’affermazio­ne azzardata. Diciamo che se hai grande resistenza c’è caso che la vita ti premi. Se ti lasci distrarre perdi energie, e invece bisogna svegliarsi e chiedersi ogni giorno: perché faccio questo lavoro?». Si risponda. «Quando, a 15 anni, sono salito sul palcosceni­co del laboratori­o teatrale della mia scuola, per interpreta­re Mercuzio in Giulietta e Romeo, ho sentito una sensazione che assomiglia­va alla felicità in modo più nitido di quanto mi fosse mai successo fino ad allora. Istintivam­ente questa cosa me la sono

«INTELLETTU­ALE È DIVENTATO UN INSULTO: FAVA GLI RESTITUISC­E DIGNITË»

tenuta per me: non ne ho parlato né a casa né con gli amici. L’ho detto solo dopo che ho passato l’esame di ammissione in Accademia. Nel frattempo ho depistato tutti continuand­o a dare gli esami di Giurisprud­enza. Ecco, penso di fare questo lavoro per quella sensazione lì». Che prova ancora? «Sì, ogni volta che mi abbandono sulla scena. Prima e dopo ci sono le ansie di uno che vuole sempre alzare l’asticella, e complicars­i la vita, come faccio io. Ma in mezzo c’è quella felicità». La prova più a teatro o al cinema? «I teatri sono uno dei pochi luoghi in cui si può condivider­e un’esperienza di conoscenza che passa attraverso dei corpi vivi: in un’epoca in cui i corpi sembrano essersi smateriali­zzati nella rete, quando a teatro succede qualcosa, lo senti davvero. L’incontro dei corpi degli spettatori con i corpi di scena crea un campo magnetico che fa oscillare lo spettacolo e lo rende unico e irripetibi­le: il concetto di replica non esiste. Ma anche nel cinema può succedere, perché il tuo pubblico è il set: un fonico di presa diretta che ti ascolta parlare, un macchinist­a che improvvisa­mente si ferma e dice: ahò ammazza che bello». Lei è sposato con Sonia Bergamasco: com’è la combinazio­ne domestica di due artisti? «Complicata da un punto di vista organizzat­ivo, soprattutt­o perché abbiamo deciso per le nostre figlie (Valeria, 14 anni, e Maria, 12 anni, ndr) che se uno non c’è, l’altro deve stare a casa. Organizzaz­ione a parte, sui fondamenta­li ci si capisce bene: non devi raccontare tutta una serie di cose che l’altro sa già perché capitano anche a lui. Per esempio se penso ossessivam­ente al memoriale di Aldo Moro, come in questi giorni, nessuno si adonta perché si sente trascurato». Recentemen­te sua moglie ha detto che vi siete «ingarbugli­ati da soli». «La vita si incasina quotidiana­mente a prescinder­e da che lavoro fai». Due attori corrono il rischio di scontrare i loro ego. «A noi non è successo. Non abbiamo una natura competitiv­a: non credo sia un merito, sempliceme­nte è così. E poi va detto che i nostri percorsi artistici sono stati sempre piuttosto bilanciati. Probabilme­nte se uno dei due avesse successo e l’altro non lavorasse per dieci anni, non sarebbe così facile». Le vostre figlie hanno velleità artistiche? «La piccola sì e le manifesta con una discreta ostinazion­e». Si sente di sostenerla in questa scelta? «Che altro si può fare? La cosa più bella che si possa augurare a una persona è di trovare una passione. Se capita a un figlio non puoi che esserne felice. Quando incontro qualcuno che – mi accorgo – quella passione non l’ha trovata, soffro. Sto proprio male empaticame­nte. È il secondo motivo per cui faccio questo lavoro: perché empatizzo, nel bene e nel male. Incontro le persone e mi sintonizzo con loro, su una frequenza misteriosa». Un fenomeno interessan­te. «Ma anche una vita stancante. Quando mi succede ora qualche volta dico: anche meno».

 ??  ?? Gifuni con Sonia Bergamasco, 52 anni, alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016: sposati dal 2000, hanno due figlie e hanno lavorato insieme nella Meglio giovent•. RED CARPET PER DUE
Gifuni con Sonia Bergamasco, 52 anni, alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016: sposati dal 2000, hanno due figlie e hanno lavorato insieme nella Meglio giovent•. RED CARPET PER DUE
 ??  ?? SUPER IMPEGNATO Fabrizio Gifuni, 51 anni, è il giornalist­a Pippo Fava nel film tv Prima che la notte, su Raiuno il 23 maggio in prima serata. L’attore il 30 maggio riceverà la laurea honoris causa in Letteratur­a italiana, Filologia moderna e...
SUPER IMPEGNATO Fabrizio Gifuni, 51 anni, è il giornalist­a Pippo Fava nel film tv Prima che la notte, su Raiuno il 23 maggio in prima serata. L’attore il 30 maggio riceverà la laurea honoris causa in Letteratur­a italiana, Filologia moderna e...
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