SGUARDO GIUSTO
Quello del teatro, che tutti per istinto hanno da piccoli, ma che solo qualcuno riesce a coltivare anche da grande, per raccontare il mondo. È quello che succede all’attore, e al suo ultimo personaggio, Pippo Fava, uno dei tanti morti dimenticati di mafia
Durante questa intervista Fabrizio Gifuni siederà su una poltroncina country palesemente troppo bassa, e scomoda. Si muoverà spesso cercando un posto dove mettere le gambe e le braccia. A una mia domanda in merito all’evidente disagio risponderà che no, che è «molto comodo», confermando forse una antica teoria secondo la quale delle interviste degli attori bisogna fidarsi pochissimo, o più probabilmente dimostrando un’educazione d’altri tempi. Il 23 maggio andrà in onda su Raiuno Prima che la notte, il film di Daniele Vicari su Pippo Fava, giornalista, scrittore e drammaturgo ucciso a 58 anni – nel 1984 – da un sicario per conto del boss Nitto Santapaola; uno dei tanti morti di mafia di cui si sa poco o niente. Nel film – alla cui sceneggiatura ha collaborato il figlio di Pippo, Claudio – Gifuni interpreta Fava, «un uomo mai abitato dalla cupezza, dalla retorica, dall’eroismo. Claudio lo accusava spesso di essere un ragazzino, lui gli rispondeva che era lui a essere troppo vecchio». Il suo omicidio fu la conseguenza di una serie di inchieste sulla mafia che Fava firmò come direttore del Giornale del Sud prima e de I Siciliani poi. «E infatti il tema di questo film non è certo la mafia, ma la libertà di stampa, uno dei termometri per misurare la salute delle democrazie», dice Gifuni. In Fava l’attore ha trovato qualcosa che sente suo, «un certo modo di guardare il mondo e raccontarlo per quello che è, ma anche trasfigurandolo su un piano simbolico. Lo sguardo del teatro: Fava l’aveva e per questo riusciva a scrivere di mafia senza mai perdere il piacere assoluto del racconto». Ci si nasce con questo sguardo, o lo si trova allenandosi? «Tutte e due le cose. Da piccoli ognuno di noi è dotato di un istinto assoluto nel riprodurre la realtà, fino a quando la società, la scuola e la famiglia non ci stringono addosso le loro tenaglie. I bambini sono maestri insuperabili per chi fa il mio mestiere». Quindi l’attore è un bambino che ha resistito più di altri alle convenzioni sociali? «Oppure una persona che cerca disperatamente di riappropriarsi dell’età dell’oro». Come si costruisce un personaggio realmente esistito? Quanta libertà e fedeltà ci vogliono? «Per interpretare Pippo ho parlato con suo figlio e con Miki Gambino, anche lui sceneggiatore e uno dei ragazzi, i carusi, che Fava teneva a bottega nei suoi giornali. Ma soprattutto ho letto i suoi scritti, nei quali si sente nitidamente la sua voce. Ho fatto un’immersione in lui e poi me ne sono allontanato, mettendo la distanza necessaria per quel salto mortale e folle che ogni attore è chiamato a fare: riportare in vita qualcuno attraverso il gioco. Trovo assurdo e presuntuoso affrontare un personaggio realmente esistito fregandosene di chi era, ma allo stesso tempo non si può rimanere schiacciati dalle indicazioni». Che cosa le piace di Fava? «La sua figura restituisce dignità e completezza a un termine che, nell’uso corrente, è diventato un insulto: intellettuale. Leggo interviste di molti colleghi che tengono a sottolineare di non esserlo. Ma non è vero: leggi dei testi, sei anche un intellettuale». Lei invece rivendica questo ruolo? «Senza vergogna. Un attore lavora con la propria sensibilità e anche con l’intelletto. Dobbiamo saper difendere certe parole contro l’onda semplificatrice per cui lo studio diventa una cosa sospetta, tutto diventa casta e radical chic. È un’epoca di transizione difficile, una specie di Medioevo». Fava era un intellettuale generoso: ha formato molti ragazzi al giornalismo. Questa generosità le appartiene? «Investire è importante in tutte le professioni: penso al teatro dove Strehler, Castri e Ronconi non hanno lasciato veri eredi perché erano pieni dalle loro creazioni. Su questo set ho incontrato alcuni giovani attori che erano stati miei allievi alla scuola Volonté: non c’è niente di più bello di scambiare». Il consiglio più importante che dà a chi comincia il suo mestiere? «Un’indicazione non tecnica: difendere strenuamente la bellezza. Allenarsi a farlo come guerrieri, perché la nostra società mina quotidianamente quello in cui un artista crede. Lo fa portando tutto nella direzione del consumo: quanto vuoi? Quanto costi? Una corruzione interna che viene introdotta a dosi più o meno omeopatiche. Il secondo consiglio è: resistere nel tempo. Questo è un mestiere per maratoneti, non per centometristi. Andare avanti con lo sguardo alto senza lasciarsi distrarre da ciò che accade intorno, comprese le ingiustizie. Ti giri, vedi uno che ha una parte e ti dici: ma come è possibile? Invece: non bisogna perdere tempo, perché se no queste cose diventano velocemente degli alibi per non fare. Per dire: tanto ci sono i raccomandati, tanto non mi prenderanno mai». Insomma se resisti prima o poi la vita ti premia? «Oddio “ti premia” mi pare un’affermazione azzardata. Diciamo che se hai grande resistenza c’è caso che la vita ti premi. Se ti lasci distrarre perdi energie, e invece bisogna svegliarsi e chiedersi ogni giorno: perché faccio questo lavoro?». Si risponda. «Quando, a 15 anni, sono salito sul palcoscenico del laboratorio teatrale della mia scuola, per interpretare Mercuzio in Giulietta e Romeo, ho sentito una sensazione che assomigliava alla felicità in modo più nitido di quanto mi fosse mai successo fino ad allora. Istintivamente questa cosa me la sono
«INTELLETTUALE È DIVENTATO UN INSULTO: FAVA GLI RESTITUISCE DIGNITË»
tenuta per me: non ne ho parlato né a casa né con gli amici. L’ho detto solo dopo che ho passato l’esame di ammissione in Accademia. Nel frattempo ho depistato tutti continuando a dare gli esami di Giurisprudenza. Ecco, penso di fare questo lavoro per quella sensazione lì». Che prova ancora? «Sì, ogni volta che mi abbandono sulla scena. Prima e dopo ci sono le ansie di uno che vuole sempre alzare l’asticella, e complicarsi la vita, come faccio io. Ma in mezzo c’è quella felicità». La prova più a teatro o al cinema? «I teatri sono uno dei pochi luoghi in cui si può condividere un’esperienza di conoscenza che passa attraverso dei corpi vivi: in un’epoca in cui i corpi sembrano essersi smaterializzati nella rete, quando a teatro succede qualcosa, lo senti davvero. L’incontro dei corpi degli spettatori con i corpi di scena crea un campo magnetico che fa oscillare lo spettacolo e lo rende unico e irripetibile: il concetto di replica non esiste. Ma anche nel cinema può succedere, perché il tuo pubblico è il set: un fonico di presa diretta che ti ascolta parlare, un macchinista che improvvisamente si ferma e dice: ahò ammazza che bello». Lei è sposato con Sonia Bergamasco: com’è la combinazione domestica di due artisti? «Complicata da un punto di vista organizzativo, soprattutto perché abbiamo deciso per le nostre figlie (Valeria, 14 anni, e Maria, 12 anni, ndr) che se uno non c’è, l’altro deve stare a casa. Organizzazione a parte, sui fondamentali ci si capisce bene: non devi raccontare tutta una serie di cose che l’altro sa già perché capitano anche a lui. Per esempio se penso ossessivamente al memoriale di Aldo Moro, come in questi giorni, nessuno si adonta perché si sente trascurato». Recentemente sua moglie ha detto che vi siete «ingarbugliati da soli». «La vita si incasina quotidianamente a prescindere da che lavoro fai». Due attori corrono il rischio di scontrare i loro ego. «A noi non è successo. Non abbiamo una natura competitiva: non credo sia un merito, semplicemente è così. E poi va detto che i nostri percorsi artistici sono stati sempre piuttosto bilanciati. Probabilmente se uno dei due avesse successo e l’altro non lavorasse per dieci anni, non sarebbe così facile». Le vostre figlie hanno velleità artistiche? «La piccola sì e le manifesta con una discreta ostinazione». Si sente di sostenerla in questa scelta? «Che altro si può fare? La cosa più bella che si possa augurare a una persona è di trovare una passione. Se capita a un figlio non puoi che esserne felice. Quando incontro qualcuno che – mi accorgo – quella passione non l’ha trovata, soffro. Sto proprio male empaticamente. È il secondo motivo per cui faccio questo lavoro: perché empatizzo, nel bene e nel male. Incontro le persone e mi sintonizzo con loro, su una frequenza misteriosa». Un fenomeno interessante. «Ma anche una vita stancante. Quando mi succede ora qualche volta dico: anche meno».