Vanity Fair (Italy)

L’UOMO CHE SUSSURRAVA AL PALLONE

Si prepara all’addio al calcio Andrea Pirlo, il genio della Nazionale che nel 2006 vinse i Mondiali. Un talento fatto anche di ordine (basta guardare i capelli) e di eleganza (ha un buon rapporto con lo specchio). Il suo futuro? Imprendito­re, golfista e c

- di FURIO ZARA

Nel nome dell’eleganza il bambino campione coltivava motivati narcisismi. Davanti allo specchio, Andrea trovò Pirlo. «Passavo ore a sistemarmi il ciuffo, il colletto della camicia, la piega della polo, l’orlo dei pantaloni. Mia mamma mi sgridava: Andrea, basta star lì a guardarti!!! Ma volevo che tutto fosse perfetto». Alice, una che di specchi se ne intendeva, chiese al Bianconigl­io: per quanto tempo è per sempre? E quello rispose: a volte, solo un secondo. Nella ricerca della perfezione Pirlo, tirando calci a un pallone, ha fatto – di-vi-na-men-te – una sola cosa: ha dato ordine al mondo, quel Paese delle Meraviglie che chiamiamo Gioco del Calcio. Oltre vent’anni di luminosa carriera da celebrare nella «Notte del Maestro», il 21 maggio a San Siro: un secondo, ma resterà per sempre. Pirlo, non l’abbiamo mai vista spettinata. «I compagni di squadra mi hanno preso in giro per anni: ma come fai a non spettinart­i? Ho sempre avuto i capelli lunghi, ma a fine partita erano in ordine. Sono nato così». Che cosa l’ha distinta dagli altri? «La visione del gioco. Credo che il mio pregio maggiore sia stato prevedere dove sarebbe finito il pallone, che

rimbalzo avrebbe fatto, come l’avrebbe colpito l’avversario. Giocavo con questa visione in testa, e lì tutto era chiaro». Quale era da ragazzino il suo piano B? «Non l’ho mai avuto. Ho cominciato a giocare con mio fratello, con le palline di spugna. Ho sempre pensato che giocare a calcio fosse il mio destino». La differenza tra un grande giocatore e un fuoriclass­e? «Il talento. O ce l’hai o non ce l’hai. Certo, serve il mestiere, ti devi allenare duramente. Questo può fare di te un ottimo giocatore. Ma il fuoriclass­e è un’altra cosa». E lei, modestamen­te, fuoriclass­e lo nacque. «Ho ricevuto un dono, credo di averlo fatto fruttare. Adesso che ho smesso, la cosa che mi gratifica di più è vedere di essere apprezzato da tutti, al di là dei tifosi delle squadre in cui ho giocato». Chi erano i suoi idoli da ragazzo? Per che squadra tifava? «Ero interista. A dieci anni avevo in camera il poster di Matthäus, il campione tedesco che vinse lo scudetto con il Trap nell’89. Ma appena ho cominciato a giocare sul serio a calcio, il mio idolo è diventato Roby Baggio». Lei ha vinto tutto: scudetti, Champions, il Mondiale. Ha qualche rimpianto? «Ho davvero vinto tutto quello che c’era da vincere, se mi volto indietro penso di essere stato fortunato. Il Pallone d’Oro? No, non è mai stato un pensiero fisso. E sono contento anche del mio percorso profession­ale. C’è stato più di un momento in cui potevo andare all’estero (nel 2006 lo cercò il Real Madrid, nel 2009 il Chelsea di Abramovich gli offrì 10 milioni di euro a stagione, l’anno dopo Pep Guardiola fece carte false per averlo al Barcellona, ndr) ma alla fine è andata così e mi sta bene». Ci sveli il segreto della «Maledetta», il calcio di punizione alla Pirlo. «Ho preso ispirazion­e dal brasiliano Juninho Pernambuca­no. Bisogna colpire il pallone con il collo del piede, come se lo schiaffegg­iassi, appena sotto la valvola. Solo così si impenna e segue traiettori­e difficili da decifrare». Quando giocava era scaramanti­co? «Per fortuna no. Ho visto compagni entrare in campo sempre con lo stesso piede, altri ripetere ossessivam­ente lo stesso gesto. Al Mondiale 2006 Gattuso indossò per un mese la stessa felpa, la puzza era indicibile ma lui non se la toglieva. Quell’estate Pippo Inzaghi, prima delle partite, si chiudeva nel bagno dello spogliatoi­o. Andava di corpo anche tre-quattro volte, una cosa terribile...». Perché ha deciso di smettere? «Non volevo arrivasse quel momento in cui la gente si guarda in tribuna dopo un tuo lancio fuori misura o un tuo tiro sbagliato e pensa: Pirlo è vecchio, è finito, non regge più. Non l’avrei sopportato». Lei ha quattro figli. Niccolò, 15 anni, e Angela, 11, avuti da Deborah Roversi, e i gemelli Leonardo e Tommaso, nati un anno fa dall’attuale compagna Valentina Baldini. Che futuro vede per loro? «Spero solo che facciano quello che li fa star bene, come è successo a me. Se qualcuno di loro deciderà di giocare a calcio, non opporrò resistenza. Niccolò ci sta provando. Con Angela non c’è pericolo, il calcio non le piace. Per Leonardo e Tommaso c’è tempo. Ai miei figli cerco di trasmetter­e i valori con cui mi hanno cresciuto i genitori. L’educazione, un certo modo di stare al mondo. È la base di tutto. Ho fatto i miei errori, ma sono orgoglioso di una cosa: non sono mai stato maleducato con nessuno». Chi è per lei Rino Gattuso? «Un fratello, ci conosciamo da quando giocavamo con le nazionali giovanili. È genuino, non ha nulla da nascondere. Mi piace per questo. Abbiamo condiviso tanta vita insieme: pensi che una volta lo costrinsi, per scommessa, a mangiare una lumaca viva, a Milanello, prima di una sfida di Champions. Che brutta immagine (ride). È l’uomo giusto per provare a far tornare grande il Milan». Qual è stata la squadra a cui è più legato? «L’Italia campione del mondo nel 2006. Ho giocato con le tre squadre più forti d’Italia, Inter, Milan e Juve, ho vinto tanto, ma quella nazionale resta speciale. A Berlino quella notte ci siamo sentiti in cima al mondo. Non sono stato mai così felice in un campo da calcio. Quando siamo andati ai rigori non ci capivo più niente. Sono momenti in cui sei poco lucido. Eravamo a centrocamp­o, Grosso stava sistemando il pallone sul dischetto per l’ultimo tiro. Avevo vicino a me Cannavaro. Gli chiesi: Fabio, ma se segna abbiamo vinto? Lui

«SE UNO DEI MIEI FIGLI GIOCASSE A CALCIO NON FAREI RESISTENZA»

mi guardò: sì Andrea, se segna siamo campioni del mondo». Giochiamo a calcetto. Chi prende nella sua squadra? «Nesta in difesa: con Ale ho diviso per anni la camera nei ritiri con la nazionale. Ronaldo il Fenomeno davanti: ci ho giocato all’Inter. Buffon in porta. Io in mezzo, ma mi porto Gattuso a guardarmi le spalle. Quanti siamo? Cinque? Ok, però c’è anche Messi: non posso lasciarlo fuori, diciamo che lui può fare quello che vuole». Il suo allenatore ideale? «Ne ho avuti di straordina­ri, da Mazzone che mi cambiò ruolo spostandom­i da trequartis­ta a playmaker davanti alla difesa, ad Ancelotti, un altro fratello. Ma Conte li supera tutti. Ho avuto la fortuna di incontrarl­o al momento giusto, dopo l’addio al Milan nel 2011. Conte mi ha insegnato molto. Ma tutti mi hanno lasciato qualcosa. L’inglese Hodgson all’Inter mi chiamava Pirla: non lo faceva apposta, era un problema di lingua, non conosceva bene l’italiano». Che cosa le è rimasto della sua esperienza nella Mls, il campionato americano? «Sono stati due anni e mezzo bellissimi, sereni, formativi. Me ne andai dalla Juve nel 2015 dopo la finale di Champions persa con il Barcellona a Berlino: era arrivato il momento di lasciare l’Italia. A New York abitavamo a Chelsea, il quartiere degli artisti, un posto splendido, mi piaceva passeggiar­e all’ora del tramonto sulla High Line. Lì ho vissuto da re: è una città fantastica, lì mi sono sentito davvero libero. L’affetto degli americani era incredibil­e. Mi chiamavano Maestro, è un soprannome che mi piace e mi lusinga». È contento della faccia che ha? «Mi piaccio come sono. Dicono che sono impenetrab­ile, che ho poche espression­i, anzi sempre la stessa (ride). Dicono che sorrido poco. Forse in pubblico è così. Ma chi mi conosce sa chi sono veramente». Si definisca con due aggettivi. «Educato. E semplice». Cos’è rimasto del bambino che si guardava allo specchio? «La ricerca dell’eleganza, la stessa che cercavo di mettere in campo quando giocavo e che cerco adesso, anche quando mi vesto la mattina, con attenzione ma mai sopra le righe». Che cosa vede nel suo futuro? «Ho tanto tempo per pensarci, vedremo, ma non c’è fretta. Per ora mi godo i miei figli. Mi piace viaggiare, non sono per niente abitudinar­io. A giugno andrò al Mondiale in Russia per i miei sponsor. Seguo le attività di famiglia (il gruppo siderurgic­o Elg Steel, una società di costruzion­i e immobili, l’azienda vinicola, ndr). E poi gioco molto a golf: ho 13 di handicap, non sono ancora ai livelli di Shevchenko o di Van Basten, loro sono davvero forti. Allenare? Prima devo prendere il patentino, ma sì, potrebbe essere un’idea». Visione finale: Buffon e Pirlo di nuovo insieme da dirigenti nel Club Italia. «Sarebbe proprio bello. La maglia azzurra per me è una seconda pelle, la nazionale è casa mia: significhe­rebbe tornare a casa». I fuoriclass­e non si spettinano, anche il vento gli è complice. I fuoriclass­e nascono pettinati. Pirlo quando riceveva il pallone irradiava calma, trasmettev­a serenità. Sembrava dicesse: non ti preoccupar­e, andrà tutto bene. Era essenziali­tà allo stato puro. Bellezza colta nella sua origine. C’è gente capace di sedurre anche solo alzando un sopraccigl­io. Girava per il campo come chi indossa una giacca doppiopett­o in pied-de-poule e passeggia con calma per il giardino di casa, l’erba è tagliata di fresco, l’aria sa di primavera, nel Paese delle Meraviglie c’è sempre qualcuno che aspetta un lancio che lo mandi a vedere cosa c’è, oltre lo specchio.

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