SEDUTTORE CORTESE
Le donne erano pazze di lui, gli uomini erano pazzi di invidia. Arrivato dalla Puglia a Hollywood in prima classe, diventò simbolo dell’immigrazione vincente insieme all’amico Salvatore Ferragamo, il cui Museo oggi dedica al divo una mostra
dio Valentino, tutti gli uomini lo odiano. Odio il suo naso classico, odio il suo sorriso, odio i suoi denti splendenti, odio i suoi capelli lucidi come vernice (…). Lo odio perché danza troppo bene, lo odio perché è troppo bello. Le donne sono pazze di lui, ma gli uomini hanno formato una società segreta il cui scopo è detestare, odiare e disprezzare Valentino per ovvie ragioni. Invidioso, io? Oh no! Lo odio e basta». Questa filastrocca, scritta da Dick Dorgan su Photoplay, una popolare rivista di cinema dei tempi del muto, è la sparata di un hater, prima che esistessero i social, contro Rodolfo Guglielmi, più noto come Rodolfo Valentino, la prima star maschile di Hollywood, paradigma assoluto di divismo e soprattutto la prima star del cinema non americana. Di lui (e di molte altre cose accadute in California tra il 1915 e il 1927) racconta la mostra L’Italia a Hollywood che inaugura il 24 maggio al Museo Salvatore Ferragamo di Firenze. Non a caso: Ferragamo collaborò con i registi più famosi del tempo, da D.W. Griffith a Cecil B. DeMille, realizzando calzature per film di grande rilievo (Il ladro di Bagdad con Douglas Fairbanks, per esempio) e fece le scarpe, è il caso di dirlo, a tutti i divi che vi possano venire in mente, da Mary Pickford a Charlie Chaplin, da Joan Crawford a Lillian Gish. Di Rodolfo Valentino, Salvatore era anche un buon amico. Come scrisse nella sua autobiografia Il calzolaio dei sogni: «Valentino era un ragazzo cortese e gentile, sempre inappuntabile. Era solito venire a casa mia, a Beachwood Drive, per mangiare un piatto di spaghetti all’italiana». Proprio nel momento del suo massimo trionfo, Valentino venne attaccato dalla stampa anti immigrazionista e xenofoba, quella che non voleva gli stranieri, in particolare gli italiani, tra i piedi: i Wasp (white anglo-saxon protestants) li consideravano dei diversi e anche i cattolici irlandesi li disprezzavano, nonostante l’identità religiosa. «Poco più di un mese prima della sua morte, il Chicago Tribune pubblicò un editoriale in cui al divo, paragonato a un piumino da cipria, veniva attribuita la responsabilità della crescente
VALENTINO, ENRICO CARUSO, LINA CAVALIERI ERANO IMMIGRATI DI SUCCESSO
effeminatezza dei maschi», scrive Giulia Carluccio nel catalogo della mostra. «Certamente l’erotismo esotico di Valentino, adorato dalle spettatrici americane, metteva in discussione l’identità maschile, ma la sua diversità era soprattutto etnica». Eppure, il suo successo è stato inarrestabile, rapidissimo, unico. Valentino ha conquistato tutti e lasciato il segno fino a dopo la sua morte. Aveva solo 31 anni quando, nel 1926, dopo essere stato ricoverato d’urgenza per un’ulcera, si spense in un ospedale di New York. Masse isteriche e piangenti si riversarono per le strade sia a New York che a Hollywood, nei due cortei funebri organizzati da una costa all’altra degli Stati Uniti. Non era mai successo nulla di simile, prima. Ma chi era Valentino e perché la sua stella fu così speciale? Intanto, non era né ignorante né disperato. Era un figlio della media borghesia pugliese, andato in America a cercare fortuna, sì, ma viaggiando in prima classe. Sbarcò a New York nel 1913 a bordo della nave Cleveland e inizialmente lavorò come taxi-dancer (ballerino a pagamento) e forse come gigolò, per poi arrivare al cinema. «La sua fortuna fu fatta dalle donne», spiega la storica Giuliana Muscio, curatrice della mostra insieme con Stefania Ricci. «Ben prima che il suo fascino arrivasse alle spettatrici, il mito di Valentino fu creato da June Mathis, una delle molte produttrici e sceneggiatrici del tempo. Lo aveva visto nei suoi primi film, dove gli facevano sempre interpretare lo sciupafemmine latin lover senza cuore. Lo trasformò in eroe romantico nei Quattro cavalieri dell’Apocalisse, il film che lo fece esplodere. Successe a Valentino quello che era successo a Greta Garbo, prima vamp mangiauomini e poi interprete di qualità. Sia Garbo che Valentino entrano a Hollywood come figure un po’ inquietanti, stranieri che corrompono la cultura americana attraverso la seduzione, ma diventano star dei sentimenti, sono il veicolo di una nuova idea poi popolarissima in tutto il cinema successivo: il lieto fine, il matrimonio d’amore». Intanto, in Italia, i film di Valentino non circolavano, perché il fascismo li censurava e anche perché Valentino aveva commesso un affronto: chiedere la cittadinanza americana. A un certo punto, l’attore venne in Italia, un po’ per andare a trovare la famiglia a Castellaneta (Taranto), dove era nato, un po’ perché era in tour con la seconda moglie Natacha Rambova, con cui faceva degli spettacoli di danza. I due si stupirono che nessuno in Italia conoscesse i film del divo. Di quel viaggio parla anche Rudy Valentino, film che esce il 24 maggio, con Tatiana Luter, Claudia Cardinale, Pietro Masotti e Alessandro Haber, nel ruolo di Gabriele D’Annunzio. In una scena Valentino racconta con rammarico al Vate che Mussolini non lo ha voluto incontrare. Infatti, fu solo dopo la sua morte che il fascismo si appropriò del personaggio e del suo mito, simbolo di italianità. Valentino, ma anche il cantante Enrico Caruso, l’attrice Lina Cavalieri, considerata la donna più bella del mondo, o Robert Vignola, prolifico regista della Hollywood degli anni Venti, erano immigrati di successo. La mostra del Museo Ferragamo racconta come, in ogni ambito, gli italiani influenzarono la California. «Di più: questi personaggi vincenti legittimarono culturalmente l’immigrazione italiana», spiega Giuliana Muscio. «L’industria agroalimentare della California era in mano agli italiani, l’Italia era fonte d’ispirazione per gli architetti di case in stile mediterraneo e, in genere, gli italiani erano più integrati qui che in altre parti d’America. Sarti, barbieri e calzolai come Ferragamo, ma anche tanti artigiani del cinema affermano l’idea degli italiani come bravi, creativi e seri, i maghi del lavoro ben fatto». Salvatore Ferragamo aveva aperto un primo laboratorio a Santa Barbara. Con il fratello Alfonso bussarono alla porta del guardaroba dell’American Film Company. Quando la casa di produzione si trasferisce a Hollywood, Ferragamo segue i suoi clienti e continua la produzione di calzature per studios e progetti sempre più importanti. «La Hollywood nella quale arrivai, durante la primavera del 1923, era ancora piccola, poco più di un villaggio al sole», scrive nelle sue memorie. Ma fin dalla sua apertura, il negozio Hollywood Boot Shop diventa punto di riferimento per chi vuole e può permettersi scarpe fatte a mano, eleganti e comode. Nel film Show People (uno degli ultimi dell’era del muto, in italiano Maschere di celluloide) di King Vidor è ripresa l’insegna. La protagonista, Marion Davies, la vede e così capisce di essere arrivata nella città dei sogni.