E IL CANARO SI FECE LEGGENDA
Quando la leggenda diventa un fatto, stampa la leggenda», dice un giornalista a James Stewart nell’Uomo che uccise Liberty Valance di John Ford (1962). Il motivo: sarà sempre più forte della storia, e gli uomini la preferiranno sempre alla verità. È quello che è accaduto alla vicenda tragica del Canaro della Magliana: perché di come andò veramente in quei giorni del febbraio del 1988 non si sa poi proprio tutto. Quando viene scoperto il corpo, semicarbonizzato e orrendamente seviziato, della vittima ci si chiede se sia un delitto di mafia o l’opera di un pazzo. Poi salta fuori che l’assassino è un omino piccolo piccolo, uno che vuole bene alla sua bambina e per campare fa un mestiere gentile: tiene belli e puliti i cani degli altri. E per questo lo chiamano, con l’ironica affettuosità del gergo romanesco, Canaro. Lui se la racconta così: che era stanco dei soprusi di questo pugile violento e arrogante, che ha trovato finalmente il coraggio di agire, che ha catturato il suo amico/nemico, l’ha chiuso in gabbia come uno dei suoi adorati cani, l’ha colpito e colpito e colpito, e poi l’ha torturato, e seviziato, e alla fine ne ha bruciato il corpo. Il Canaro finisce sotto i riflettori. Si racconta. Aggiunge particolari su particolari. Col morto aveva un rapporto perverso. Ne era ossessionato e succube. Più che scusarsi, rivendica. Non è pazzo, anzi. Se tornasse indietro, lo rifarebbe. Non è pazzo, ma una prima perizia lo giudica tale, e rovescia la responsabilità sulla cocaina. È stata la Dama Bianca a trasformare il mite omarino in un killer assetato di sangue. Una seconda perizia degrada la follia totale a semi-infermità. Seguono condanna ed espiazione. Nel frattempo, la leggenda si è imposta. C’era una volta un uomo piccolo angariato da uno grande e grosso. Quest’uomo perde la pazienza e si vendica. Anche se c’è molto che non torna nella storia come ci è stata tramandata. Ci sono, per dire, le perizie: la scienza che smentisce il racconto allucinante del Canaro, la scienza che ci dice che la vittima muore per i colpi subiti, muore presto, prima di essere torturata. Ammesso che poi tortura vi sia stata e che il racconto allucinante di una sequenza di crudeltà non sia, invece, il racconto allucinato di un delirio da cocaina. Ma non conta. Il Canaro, con la sua crudeltà più fittizia che reale, è un modo di dire. Come è potuto accadere? C’è sicuramente un aspetto legato allo scenario. La vendetta ha meritato al Canaro quel rispetto che la subcultura della marginalità riconosce a chi non china il capo, secondo una linea di lettura dei rapporti umani che collega la foresta di Sherwood all’odierno trap. E dal rispetto deriva l’onore, vale a dire il nome pronunciato con ammirazione, il riconoscimento di una croce d’argento guadagnata sul campo. Questo, e solo questo è il Canaro. Almeno a Roma. Ma né un grande scrittore come Vincenzo Cerami – che al Canaro dedicò un capitolo del suo storico Fattacci: il racconto di quattro delitti italiani – né un grande regista come Matteo Garrone, autore, con i suoi formidabili sceneggiatori Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, di quell’autentico capolavoro che è Dogman, vengono dalla strada. Sono raffinati intellettuali, eppure non possono sottrarsi a una così perversa fascinazione. Cerami ci fornisce un indizio importante, quando commenta una dichiarazione del vero Canaro, che dice più o meno: sono uno come tanti, mi sono imbattuto nell’imponderabile, potrebbe capitare a chiunque. Nota Cerami: «L’assassino fa riferimento, senza saperlo, ai demoni che dentro tutti gli uomini perennemente dormono, come dentro gli antichi vulcani». Demoni che, se scatenati, ci divoreranno. Per questo vanno lasciati riposare. Per sempre. E Garrone completa il quadro, quando distoglie lo sguardo – il suo e il nostro – dal massacro e lo fa rivivere negli occhi inquieti ma innocenti dei cani. In quella dimensione selvaggia della natura che non conosce il male cosciente e i suoi demoni e si arresta inorridita sulla sua soglia. Come è giusto che sia davanti al mistero.