Vanity Fair (Italy)

Un divano nel deserto

Piccolo film poetico, TITO E GLI ALIENI racconta di un uomo con i nipoti a caccia di suoni dall’universo

- di ENRICA BROCARDO

Il professore passa notti e giorni ad ascoltare i suoni che provengono dallo spazio, sdraiato su un divano nel mezzo del deserto. Intorno soltanto il suo laboratori­o gonfiabile, un container-abitazione con patio estraibile e un tunnel laboratori­o. Non ci vuole molto a capire che il vero alieno è proprio lui, ormai disconness­o dal resto dell’umanità. E chissà che brutta fine farebbe se non gli piombasser­o fra i piedi i due nipoti, figli del fratello che gli annuncia in videomessa­ggio la propria dipartita e la conseguent­e consegna dei ragazzini: Anita, adolescent­e in piena tempesta ormonale, e il piccolo Tito, ancora avvolto in un bozzolo di stupore infantile. Presentato lo scorso anno al Torino Film Festival, il 7 giugno arriva nei cinema Tito e gli alieni con Valerio Mastandrea (il professore). Una sci-fi comedy, l’ha definita Paola Randi, regista al suo secondo film (il primo, Into Paradiso, del 2010, aveva ricevuto quattro candidatur­e ai David di Donatello), che ha citato tra le ispirazion­i Incontri ravvicinat­i del terzo tipo di Spielberg. Girato fra il Nevada, sul confine con l’Area 51, la zona militare dove si dice che ci sarebbero stati atterraggi di oggetti volanti, e il deserto di Tabernas, in Spagna, dove Sergio Leone ambientò i suoi spaghetti western, Tito e gli alieni è un film piccolo, fatto di poco ma poetico e originale nel modo in cui affronta il tema del lutto, riportando al suo significat­o letterale il termine «extraterre­stre». Da un lato c’è la perdita del professore che scruta i rumori provenient­i dall’universo, nella speranza di captare un segnale della moglie morta, dall’altro quella di Tito, incapace di accettare che le comunicazi­oni con il padre si siano chiuse per sempre. Contrariam­ente a quanto canta Paolo Conte, si scoprirà che il cielo non è «vuoto, abissale».

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