Un divano nel deserto
Piccolo film poetico, TITO E GLI ALIENI racconta di un uomo con i nipoti a caccia di suoni dall’universo
Il professore passa notti e giorni ad ascoltare i suoni che provengono dallo spazio, sdraiato su un divano nel mezzo del deserto. Intorno soltanto il suo laboratorio gonfiabile, un container-abitazione con patio estraibile e un tunnel laboratorio. Non ci vuole molto a capire che il vero alieno è proprio lui, ormai disconnesso dal resto dell’umanità. E chissà che brutta fine farebbe se non gli piombassero fra i piedi i due nipoti, figli del fratello che gli annuncia in videomessaggio la propria dipartita e la conseguente consegna dei ragazzini: Anita, adolescente in piena tempesta ormonale, e il piccolo Tito, ancora avvolto in un bozzolo di stupore infantile. Presentato lo scorso anno al Torino Film Festival, il 7 giugno arriva nei cinema Tito e gli alieni con Valerio Mastandrea (il professore). Una sci-fi comedy, l’ha definita Paola Randi, regista al suo secondo film (il primo, Into Paradiso, del 2010, aveva ricevuto quattro candidature ai David di Donatello), che ha citato tra le ispirazioni Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. Girato fra il Nevada, sul confine con l’Area 51, la zona militare dove si dice che ci sarebbero stati atterraggi di oggetti volanti, e il deserto di Tabernas, in Spagna, dove Sergio Leone ambientò i suoi spaghetti western, Tito e gli alieni è un film piccolo, fatto di poco ma poetico e originale nel modo in cui affronta il tema del lutto, riportando al suo significato letterale il termine «extraterrestre». Da un lato c’è la perdita del professore che scruta i rumori provenienti dall’universo, nella speranza di captare un segnale della moglie morta, dall’altro quella di Tito, incapace di accettare che le comunicazioni con il padre si siano chiuse per sempre. Contrariamente a quanto canta Paolo Conte, si scoprirà che il cielo non è «vuoto, abissale».