Vanity Fair (Italy)

IL COLLEZIONI­STA DI IMMAGIΝI

- di ENRICA BROCARDO

Ci sono molte costanti nella carriera del regista Abdellatif Kechiche, diventato popolare con La vita di Adele: scoprire talenti, realizzare centinaia di ore di girato, essere amato dalla critica. Ma anche suscitare polemiche, al punto da incontrare difficoltà per finire il nuovo film, primo di una trilogia. Riuscirà a completarl­a?

Negli anni Ottanta dicevamo: “Mancano solo vent’anni al nuovo secolo”. Poi, negli anni Novanta: “Ne mancano solo dieci. Tra poco è il Duemila e sarà straordina­rio, saremo ancora più liberi”. In realtà qualcosa cominciava a incrinarsi, a corrompere quella speranza che, allora, ci metteva in uno stato di effervesce­nza». Nasce dal bisogno di tornare indietro, dimenticar­e un presente fatto di terrorismo e tensioni sociali il nuovo film di Abdellatif Kechiche, Mektoub My Love - Canto Uno, al cinema dal 24 maggio. «Una fuga», lo definisce il regista, agli anni in cui sentì quella speranza formarsi per la prima volta. «Avevo 13, 14 anni quando vidi un film di Bertrand Blier, I santissimi. Mi trasmise un desiderio di libertà che, oggi, ormai è perso», ma che ancora muove i personaggi della storia ispirata al romanzo La ferita, quella vera di François Bégaudeau, lo stesso della Classe, dal quale fu tratta la sceneggiat­ura del film di Laurent Cantet, Palma d’oro al Festival di Cannes giusto dieci anni fa. Ma se il libro, appena pubblicato in Italia da Einaudi, è ambientato nel 1986, Kechiche ha preferito spostare la storia al 1994, a Sète, nel Sud della Francia. Per avvicinars­i alla fine del secolo, agli sgoccioli di quell’attesa. E, probabilme­nte, anche se non lo ammette in modo esplicito, per allontanar­e il sospetto – legittimo – di autobiogra­fismo. Dice: «Non penso che tu possa davvero parlare di te in un film. Sono gli altri che mi spiegano chi sono». Eppure si fa fatica a non trovare corrispond­enze fra lui e il protagonis­ta, Amin. E non solo, banalmente, per le origini tunisine. «Ama la letteratur­a, scrive sceneggiat­ure, come sognavo io da ragazzo». E siccome è appassiona­to di fotografia, il suo sguardo inquadra tutto quello che gli accade intorno. Spia la ragazza della quale è innamorato tradire il proprio fidanzato con suo cugino, Tony. Osserva quest’ultimo fare promesse d’amore infondate a un’altra ragazza. Filma idealmente le giornate trascorse in spiaggia e le notti che iniziano al ristorante gestito dalla famiglia, dove stazionano decine di parenti, per finire in discoteca all’alba. Un fiume di parole e un turbinio di zie, zii e nipoti, baci, avance, pettegolez­zi e confession­i. «Mi piacciono questi rapporti non conflittua­li fra generazion­i diverse», dice. «Perché, alla fine, i giovani passano attraverso le stesse tappe che abbiamo affrontato noi». Kechiche è arrivato con la famiglia a Nizza, all’età di sei anni. La sua passione per il cinema e il teatro l’ha portato a studiare arte drammatica al Conservato­rio e, inizialmen­te, a fare l’attore. «Ma, col tempo, ho capito che non faceva per me. Quando mi trovo una telecamera davanti, mi auguro solo di vederla esplodere». E così, come si dice, passa dall’altra parte. Il suo debutto alla regia è del 2000, con Tutta colpa di Voltaire, che vince il premio Luigi De Laurentiis a Venezia. Nel tempo, lo stile dei suoi film non è cambiato molto. Uguale la scelta frequente di attori non profession­isti – lo stesso Shaïn Boumedine che interpreta Amin è stato reclutato mentre faceva il cameriere – che hanno molte volte iniziato la loro carriera nel cinema grazie a lui («Quello che più mi eccita è scoprire talenti, giovani che mi stupiscono e che mi meraviglia­no, e con i quali si possono provare un sacco di cose, liberament­e»). Stessa la passione per il realismo estremo che lo porta a filmare senza interruzio­ne, colleziona­ndo centinaia di ore di girato. Altra costante: il riconoscim­ento della critica. Da Cous cous, Leone d’argento – Gran premio della giuria a Venezia nel 2007, fino a La vita di Adele, Palma d’oro a Cannes nel 2013. Ma quello che doveva essere l’anno della sua consacrazi­one è finito per diventare l’inizio di una serie di polemiche con strascichi che arrivano a oggi. Le due protagonis­te della Vita di Adele, Adèle Exarchopou­los e Léa Seydoux, si sono lamentate per i suoi metodi non proprio ortodossi sul set e la troupe lo ha accusato di lavorare nel caos. A sua discolpa, Kechiche avrebbe potuto usare il suo credo: «Non voglio che i miei film assomiglin­o alla vita. Voglio che siano pezzi di vita vera». E, invece, sentendosi accerchiat­o dai nemici e vittima di complotti (non deve aver aiutato il fatto che la Seydoux sia la nipote del presidente della casa di produzione cinematogr­afica Pathé, la stessa che avrebbe dovuto distribuir­e il film) ha fatto lievitare le tensioni. E ha perso per strada i finanziame­nti. Per finire il montaggio del film, il regista ha messo all’asta la sua Palma d’oro, più altre memorabili­a recuperate dal set. Mektoub My Love - Canto Uno è passato lo scorso settembre al Festival di Venezia, dove ha raccolto qualche accusa di sessismo per le tante inquadratu­re altezza glutei delle attrici. Ma il vero problema è che non si sa che fine farà il Canto Due, già girato – in realtà Kechiche ha in mente una trilogia –, che immagina la vita dei personaggi oltre il romanzo di Bégaudeau. «Non posso svelare tutto, ma nella seconda parte Amin incontra un produttore cinematogr­afico», concede lui. E noi ci auguriamo di scoprire presto il resto.

«NON VOGLIO CHE I MIEI FILM ASSOMIGLIN­O ALLA VITA. VOGLIO CHE SIANO PEZZI DI VITA VERA»

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