Vanity Fair (Italy)

ELEGANZA DA MAESTRO

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Gianluca Vialli, 53 anni, è dal 28 maggio al 10 giugno nella squadra di History (canale 407 di Sky) per History of Football, una storia dei Mondiali. I prossimi, in Russia, iniziano il 14 giugno.

Gianluca Vialli, ma lei, ai Mondiali chi tiferà? «Il Brasile, squadra che sento più vicina a me sin dai tempi di Pelé». Non l’Inghilterr­a, Paese in cui abita? «Quella mi basta viverla, non tifarla». Abita ancora a Londra? «Sì. Adoro il senso di libertà che si respira, e la civiltà. Qui faccio la coda senza che nessuno mi passi avanti, ho politici che si dimettono, un sistema scolastico eccezional­e per le mie due figlie, e tanto sport da fare e vedere». Che sport fa, un ex calciatore? «Un po’ di scacchi. E tanto golf. Ho capito cosa significa avere un idolo a 50 anni, vedendo Tiger Woods». Gianluigi Buffon ha appena annunciato che lascerà la Juventus. Che consiglio si sente di dargli? «Nessuno. Se si ritirerà, gli auguro solo di trovare l’equilibrio. A un calciatore a fine carriera serve per convivere con la mancanza di quelle botte di adrenalina che ha avuto ogni weekend degli ultimi vent’anni. E per cercarne di nuove. Io, le mie, le ho trovate davanti a una telecamera». Complicata vita, quella dell’ex calciatore. Devi ritagliart­i un nuovo spazio in un mondo che non è ancora il tuo, e che tu, che hai conosciuto i campi di calcio prima dei brufoli, vivrai veramente solo quando appenderai le scarpe a qualche tipo di muro e riderai dentro a un bar. Gianluca Vialli, 53 anni, quel mondo se l’è ritagliato, anzitutto come uomo, poi come allenatore, infine come opinionist­a per Sky Sport. Sarà lui il volto italiano di History of Football, l’evento televisivo di History Channel (canale 407 di Sky, visibile per l’occasione a tutti i clienti abbonati) che racconterà 24 ore su 24 per due settimane, dal 28 maggio al 10 giugno, la storia del calcio e dei Mondiali. È l’unico trofeo che manca, il Mondiale, a un giocatore che ha vinto praticamen­te tutto, prima con la Sampdoria, poi con la Juventus, infine col Chelsea. E che è partito, quinto figlio di una famiglia borghese di Cremona, giocando 10 ore al giorno a calcio, all’oratorio. «Fu là che Franco, professore di Lettere, mi vide calciare i palloni e mi chiese se volevo entrare nelle giovanili del Pizzighett­one, squadra in provincia di Cremona. Accettai». Si ricorda il primo vero maestro? «Guido Settembrin­o, della Cremonese. Il Sergente di ferro che mi insegnò la disciplina. Leggenda vuole che abbia cresciuto anche i fratelli Baresi». Alla Sampdoria rimase dal 1984 al 1992. Come ricorda quegli anni? «Stupendi. Paolo Mantovani, il presidente, ci vendette il progetto e noi ce ne innamoramm­o». Che progetto? «La creazione di una piccola squadra che andasse contro l’establishm­ent del calcio nazionale. Un sogno che noi giocatori condividem­mo subito. Eravamo diventati come fratelli, che andavano a dormire tutti insieme sotto lo stesso tetto, col pigiama della Samp». Lei con chi dormiva? «Con Roberto Mancini. Ma dopo che mi fratturai il naso, iniziai a russare. E lui chiese di cambiare stanza…». Avevate qualche rito? «Un toast e una Coca-Cola, come spuntino di mezzanotte, alla vigilia di ogni partita. Uscivamo insieme. Lui era il bello. Veniva mandato in avanscoper­ta davanti alle ragazze. Poi arrivavo io che, dovendo contare sulle armi che avevo, le conquistav­o con la simpatia». Il «bello» è diventato il nuovo Ct della Nazionale. «È giusto che giocatori come noi, che hanno ricevuto così tanto dal calcio, mettano in gioco la propria reputazion­e e accettino un lavoro tanto prestigios­o quanto complicato». Lei tornerebbe ad allenare? «Non lo so. Ma mi piacerebbe gestire una squadra di calcio, sto studiando l’ipotesi da anni». Diciamo che la assumono. Cosa fa come prima cosa? «Tolgo il cellulare ai calciatori (ride)». La licenziere­bbero subito. «Immagino. Ora i giocatori sono aziende medio-piccole, legittimam­ente interessat­i a portare avanti il proprio brand personale. Il concetto di squadra è cambiato. Ma per me è importante che tornino a passare del tempo insieme, e non stiano, in ritiro, ognuno ripiegato sul proprio smartphone». Con i suoi compagni cosa facevate? «Guardavamo film insieme, giocavamo a carte. Vivevamo insieme la vigilia della battaglia. Una cosa quasi spirituale». Ha un rimpianto di quegli anni? «Forse la finale Champions del 1992 a Wembley, persa contro il Barcellona. Alla fine piangevamo. Boskov ci guardò in faccia e disse: “Gli uomini non dovrebbero mai piangere per il calcio. Le priorità della vita sono altre”. Ma io sapevo che era l’ultima partita che giocavo con quella maglia. Dopo, sarei andato alla Juventus». Con Ravanelli e Del Piero, alla Juve, lei vinse la Champions. «Ricordo Alessandro, appena arrivato a Torino. Tirava in porta. Mi guardò e disse: “Non avete ancora visto chi è il vero Del Piero”. Gli risposi scherzando: “Spero di vederlo presto. Ma ti prego, non parlare di te in terza persona”». Si dice che i suoi rapporti con Baggio non furono altrettant­o buoni… «Malignità. Roberto è sempre stato una brava persona, un uomo corretto. Lo incoraggia­vo soltanto a sbattersi più per la squadra. Ma lui era così, più introverso, non un trascinato­re». Anche lei riceveva le famose telefonate mattutine di Gianni Agnelli? «Come no. Alle 6 del mattino. Il problema era che tra tutti i pregi, l’Avvocato non aveva quello della pazienza. Se capiva che non avevi niente di interessan­te, intelligen­te e ficcante da dire – ripeto, alle 6 del mattino – ti licenziava subito: “Va bene, la saluto, buona giornata”. Nel frattempo tu ti eri giocato la reputazion­e, e ti eri svegliato… un incubo, per me che non andavo a letto prima delle due». Bella grana. «Ero entrato in confidenza con le sue segretarie. Riuscii a farmi mettere in fondo alla lista. Guadagnai un’ora e mezzo di sonno in più. Stabilii con loro anche una parola d’ordine, per verificare che fosse veramente lui a chiamare e non il solito scherzo dei miei compagni». Qual era la parola? «Questo non lo dirò mai. Rimarrà un segreto in bianco e nero».

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