Vanity Fair (Italy)

UNA RISATA SALVERA IL MONDO

- di MALCOM PAGANI foto FABIO LOVINO

Alla vigilia del suo nuovo programma su laF e dopo il successo del suo primo libro, Chiara Francini ci riprova con il secondo. In Mia madre non lo deve sapere, dice: «C’è quasi la mia autobiogra­fia». Tra padri originali, amici per la pelle e condomini abitati da un’umanità molto stravagant­e

«FATICHEREI A NON DIRMI LA VERITÀ, ANCHE SE È BRUTTA»

Parti da non recitare per conquistar­e Chiara Francini: «Non amo gli uomini che mi chiedono “vuoi bere qualcosa?” o peggio “di che segno sei?”. Sono astemia, non voglio bere niente e lo Zodiaco per me resta soltanto il nome di un bar. All’insincerit­à di un approccio simile, preferisco mi venga detto “vuoi scopare?”. In quel caso saprei come sottrarmi, gestire la situazione, stemperare l’assalto con l’ironia». Nel suo secondo scatenato libro, Mia madre non lo deve sapere, l’attrice a suo agio con l’ermeneutic­a come con la semplicità – «Il mondo sarà salvato dall’autoironia e da una fetta di pane e mortadella» – ha messo la vita che conosce – «Ci sono le persone che conosco e ci sono soprattutt­o io». L’atmosfera, monicellia­na, è un vorticare di padri, madri, amiche, compagni, odori condominia­li, cessi in cui rifugiarsi, quando il mondo, fuori dalla porta, bussa con indelicata insistenza: «Di cosa parla? Di come sia difficile e assolutame­nte magico essere una donna oggi. Dell’importanza di essere bucate, sbeccate, sanguinant­i e di come la perfezione sia disumana perché l’essere umano è sempre imperfetto».

Ne è convinta da sempre?

«Fin da bambina. Sono cresciuta con i miei nonni materni, osservando un mondo di adulti di grande acume con la terza elementare in tasca. Trascorrev­o poco tempo con i miei coetanei. Amavo la bizzarria e l’anomalia. Mia madre mi diceva sempre: “Oh Chiara, ma da dove sarai uscita tu?”». Una madre riapparsa dopo anni di assenza è uno dei personaggi centrali del romanzo. «La madre è la figura più ingombrant­e, devastante, avvolgente e imprescind­ibile che esista. Dimmi che madre hai e ti dirò chi sei. Volevo raccontare una madre non madre che non segue alcun canone, sa farsi amare comunque e allo stesso tempo stabilire che una donna, per essere tale, non debba diventare necessaria­mente madre. Ne conosco tante che pensavano di risolvere un rapporto e scoprirsi felici mettendo al mondo un figlio o restando accanto al marito anche quando la sera non c’è più niente da darsi o da dirsi. Ma non si decide di essere madri né di essere felici. O lo si è o non lo si è». Le donne del suo libro provano a esserlo. «Sono personaggi che hanno un unico comun denominato­re: non si vergognano di loro stesse. Hanno tutte una ferita e non hanno paura di guardarsi allo specchio e di dire: “Sto di merda”. Cadono e nella caduta vedono una possibilit­à. L’opportunit­à di vedersi addosso le cicatrici, le memorie, le caratteris­tiche che ti rendono unica». Senza cadere la realtà non è reale? «Sbagliare è meraviglio­so e inciampare in una buca ti permette di non ruzzolare domani. La sconfitta è pedagogica e la pedagogia della sconfitta fa crescere. Soffrire fa parte della vita, farsi male e soffrire, anche». Le è capitato di farsi male? «Un’infinità di volte. E non c’è stata occasione in cui dopo essermi fatta male non abbia guardato con più fiducia al futuro. Senza rancore. Senza invidia. Chi non si è mai ferito non può provare il godimento sommo di un segno che si rimargina e ti consente di risalire la china. Sono medaglie di bellezza, le cicatrici, perché la bellezza è una magia di proporzion­i inspiegabi­li che la razionalit­à non può definire». Lei come si definirebb­e? «Sono egocentric­a, come tutte le attrici. Non amo le smancerie e non ho molti amici, ma considero l’amicizia come la più suprema tra le forme d’amore. Sono determinat­a e quasi calvinista. Se decido di arrivare in un punto ci arrivo, ma ci arrivo a modo mio. Mi sento una grande combattent­e e posso accettare di vincere o di perdere, ma mai di non giocare». Cosa non si perdonereb­be? «Faticherei a non dirmi la verità, anche quando è sgradevole. Mentirsi è triste. Non esiste affronto più grande che si possa fare a sé stessi. Raccontars­i una bugia equivale a negarsi la possibilit­à di una rinascita». È refrattari­a ai bilanci? «Tendo alla felicità, mai alla completa soddisfazi­one. Far bene, con l’educazione che ho avuto, è normale. A mia madre comunicavo solo i brutti voti perché prendere il massimo era dovuto. La notte prima di laurearmi la passai in bianco. E partivo da 110». Ora la laureano scrittrice. «Ma resto la ragazza che tiene accese le lucine di Natale per 12 mesi l’anno e che nei ringraziam­enti non dimentica di omaggiare la pizza toscana, la schiacciat­a. Ho avuto un’infanzia allegra e quell’allegria cerco di portarmela dietro nei libri che scrivo e nella vita. Ridere è fondamenta­le. Con i miei amici, ogni anno, facciamo un viaggio di 15 giorni in cui, utilizzand­o il nostro gergo davanti al caffellatt­e, mettiamo da parte i mattoni che terranno in piedi la casa di domani. Tendo alla positività. Penso che anche quando le cose vanno male in fondo vadano benissimo. La vita per me è come la “strobo” della discoteca. Muta il riflesso, ma la luce emanata è sempre la stessa. A volte, per trovarla, basta spostarsi». Con Love Me Gender, viaggiando alla ricerca di storie che andranno in onda da giugno su laF, l’ha appena fatto. «Con l’aiuto di Simona Ercolani sono andata a scoprire che non esiste una sola forma d’amore e ad ascoltare persone che, pur ammaccate, sono rimaste fedeli a loro stesse. Ho trovato ragazze che sono diventati maschi, madri titaniche, fatiche che arrivate al traguardo hanno visto splendere il loro premio di una brillantez­za nuova. L’amore è multiforme e i bambini, che non sono né buoni né cattivi, ma plasmano sempliceme­nte la loro vita come si farebbe con il Pongo o con il Das, lo sanno meglio di tutti gli altri. Io ho incontrato bambini cresciuti, con un sogno ardito, finalmente realizzato». Chi ha incontrato davvero? «Persone non più in transito che avevano compiuto il loro viaggio identitari­o e che volevano anche un riconoscim­ento dal resto del mondo. Una patente. Un timbro. Un abbraccio, magari formale. Gli ho chiesto: “Ma è davvero più importante la carta della carne?”. Mi hanno risposto di sì». abito, Paolo Isoni. Orecchini a cerchio, Crivelli. Styling Stefania Sciortino. Make-up Rossano De Cesaris using Make Up For Ever. Hair Piero Giordi.

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