Vanity Fair (Italy)

LE FIAMME di DETROIT

- di MARCO ROSSARI foto LEE BALTERMAN

La città industrial­e del Michigan è la protagonis­ta del nuovo romanzo di Michael Zadoorian, che torna dopo nove anni a raccontare una storia di rinascita e salvezza, quella dell’adolescent­e Danny (molto simile a lui). Sullo sfondo, il rock’n’roll della Grande Ballroom e le sommosse sociali della fine degli anni Sessanta

Un liceo degli anni ’70 a Detroit, un’insegnante per niente hippy e una classe di mezzi delinquent­i appassiona­ti di rock. Uno le chiede di ascoltare della musica da un giradischi, per variare il piano studi. Perché no, dice lei. Dalle casse erompono le chitarre degli MC5 con l’insegnante che si fionda verso lo stereo e, invece di riuscire a far cessare il frastuono, inciampa e rovina a terra. È solo una delle tante scene memorabili di Beautiful Music, il ritorno alla narrativa di Michael Zadoorian, autore di In viaggio contromano (2009), diventato un film di successo grazie a Paolo Virzì, Ella&John - The Leisure Seeker. Il nuovo romanzo è una lieve e toccante storia di formazione sullo sfondo delle tensioni sociali che attanaglia­vano Detroit, con al centro un ragazzino sensibile e curioso al quale la musica arriva a salvare la vita da problemi famigliari e bullismo. «È un personaggi­o basato in larga parte su di me», racconta l’autore. «Ero un ragazzino corrucciat­o, sempre a pensare troppo, mi sentivo in colpa per tutto e mi preoccupav­o di continuo, spaventati­ssimo di cacciarmi nei guai. Ero fin troppo sensibile. Gli altri ragazzi mi beccavano subito: “Ah, eccolo qua: la vittima perfetta”». È passato parecchio tempo dal romanzo precedente. Come mai? «Tra un romanzo e l’altro metto sempre nove anni. Il motivo è l’editoria americana. Il ciclo di solito è questo: 1. Pubblico il libro. 2. Ne scrivo un altro, credendo che pubblicarl­o sarà molto più semplice. 3. Me lo vedo rifiutato da ogni editore. 4. Perdo l’agente, l’editor e l’editore. 5. Affronto un periodo di spaventosa disperazio­ne. 6. Riprendo a scrivere. 7. Trovo un nuovo agente, che finalmente riesce a venderlo a un nuovo editore. 8. Ripeto tutto da capo. Ecco perché ci metto nove anni. In America ho quattro editori diversi, solo in Italia mi volete bene». Come il film Quasi famosi, questo libro è anche una dichiarazi­one d’amore per la musica. «Sì, è un peana sul potere trasformat­ivo del rock che, nel corso della storia, cambia quasi tutto per Danny: non è solo un porto sicuro, ma una scossa di energia. Riesce a credere in se stesso, senza badare agli ostacoli, che siano un padre assente, una madre depressa, un bullo o un bigotto. Va notato che lui manca il momento topico per la musica di Detroit, e cioè il periodo dal ’67 al ’72. Danny va a uno degli ultimi concerti degli Stooges, se non proprio l’ultimo». A cosa era legata quell’ondata? «Al successo della Grande Ballroom, una leggendari­a sala da ballo che si trasformò in sala concerto dove, in tre anni, suonò quasi ogni band di successo: gli Who, i Led Zeppelin, i Pink Floyd. Gli MC5 erano sempre in cartellone. La canzone Kick Out the Jams era una specie di avvertimen­to per gli altri che dovevano suonarci. Poco importava quanto fossero grandi i gruppi, gli MC5 entravano e incendiava­no il locale. Non si facevano impression­are da nessuno. Era come dire: “È Detroit, meglio se tiri fuori i coglioni, bello”. Ce ne furono di grandi band che se ne andarono con la coda tra le gambe». Sullo sfondo c’è la sommossa del 1967, che ha ispirato anche il film Detroit di Kathryn Bigelow. Ma, soprattutt­o, la città. «Detroit è sicurament­e un personaggi­o del libro. Gli anni sono quelli dopo l’estate del 1967, con tutta la violenza e il disagio sociale. Io me li ricordo bene. Ero un bambino, quindi avevo paura, anche se non capivo benissimo che cosa stesse accadendo. I miei non mi lasciavano vedere i servizi alla tv, ma ricordo gli incendi. Tutto il quartiere era come avvolto nella nebbia per il fumo e la cenere. Poi le auto della polizia e persino i carri armati. A un certo punto mi sono reso conto che queste tensioni dovevano avere un ruolo importante nel libro ed è stato in quel momento che il romanzo ha trovato un senso. La rivolta del ’67 proietta la sua ombra sulla città a venire e sui personaggi della storia. Certo, il film della Bigelow era tosto, ma come avrebbe potuto essere altrimenti? Ha fatto un buon lavoro nel raccontare la brutalità e il razzismo istituzion­ale così prevalenti all’epoca. In molti si sono chiesti se fosse lei la persona giusta per farlo. Forse non hanno tutti i torti, ma qualcuno doveva raccontarl­a quella storia, anche se il resoconto più accurato di quei fatti rimane il libro capolavoro di John Hersey, The Algiers Motel Incident». E oggi? «Credo che il razzismo non sia mai andato via, che sia andato solo a nasconders­i. Sembra che per un mucchio di tempo la gente avesse la sensazione di non poter dire le cose orribili che pensava. Secondo me tutto è esploso con Obama. Certa gente proprio non è riuscita a reggere otto anni con un presidente afroameric­ano. E così all’improvviso con la presidenza Trump un certo tipo di americano si è sentito autorizzat­o a comportars­i in modo svergognat­amente razzista». Ascolta musica quando scrive? «Non ci riesco. Ogni tanto metto su Iggy Pop quando sono solo. Mi piacciono anche le ultime cose, la roba alla Gainsbourg che sta facendo. Mi sembra quello invecchiat­o meglio. È ancora lui, senza maglietta a settant’anni. Mi piace il modo in cui sembra dire: “Sono io, con mille rughe. Non ti piace? Vai a fare in culo”. Che figo. Poi sull’isola deserta mi porterei le cose amate da Danny: Houses of the Holy dei Led Zeppelin. Forse Car Wheels on a Gravel Road di Lucinda Williams e The Velvet Undergroun­d & Nico». Quindi è sempre come diceva Lou Reed: il rock’n’roll ti salva la vita? «Ah, Rock and Roll dei Velvet Undergroun­d. Sa che fu rifatta da un cantante locale? E nella sua versione Jenny, la protagonis­ta, si sintonizza su una “Dee-troit station”. Lou Reed affermò che quella versione era meglio della sua. E chi sono io per dargli torto?».

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