Sognando un Savarin
Ingredienti di stagione ma soprattutto passione e dedizione: le regole di Paul Bocuse, il grande chef francese della Nouvelle cuisine e maestro di vita
La mia passione per la cucina, e in generale il gusto, è piuttosto precoce. Da bimbo i miei giochi erano… padellini e pentoline. Poi, lasciata l’Etiopia della mia infanzia, arrivato a Palermo trovai in una libreria dove il mio babbo usava andare spesso un misterioso, grande volume blu e oro, affascinante ai miei occhi come una bibbia: La cucina del mercato di Paul Bocuse. Oh quale forza evocativa quel nome sviluppò in me quasi immediatamente! Convinsi mio padre a comprarmi quel librone, immagino anche costoso, e appena a casa mi tuffai nella voluttà delle sue numerose pagine e poche foto. E così scoprii il mondo dell’alta gastronomia, l’idea che una vita potesse essere completamente dedicata a nutrire gli altri, la personalità dello chef come quella di qualcuno che sapeva insegnarti la vita. Quel grande volume, caposaldo della letteratura gastronomica del ’900, era raccontato quasi tutto in prima persona, dall’introduzione folgorante, in cui il maestro invita il lettore a seguire due regole per la buona cucina, scegliere ingredienti di stagione e, soprattutto, cucinare con amore. Che forza in quelle parole. Che forza Paul Bocuse. Che gioia scoprire piano piano, in un’epoca pre-Google, informazioni sul mio eroe di Lione. Bocuse, vanto assoluto della Francia intera, cuoco di una famiglia di cuochi dal 1600, fondò la Nouvelle cuisine, tendenza che rese l’antica gastronomia francese conscia della modernità nell’uso dei grassi e nelle cotture. Eppure queste ricette, come il Civet di lepre, che prevedevano 10 ore di cottura così che la carne potesse «mangiarsi con il cucchiaio senza coltello», o la tacchinella tartufata da farne aromatizzare le fibre seppellendola avvolta nel grasso (alla Beuys!!!) sotto terra in giardino per giorni interi aprivano in me la conoscenza di un mondo magnificamente tradizionale e laborioso.
Ovviamente dopo approfondita lettura mi tuffai nella prova: e così quante nottate ad aspettare che l’impasto del Savarin di Bocuse lievitasse, ore e ore. Quanta noia dell’adolescenza sconfitta con le storie lionesi di Bocuse, della sua inesausta voglia di tramandare la conoscenza del suo sapore fino alla fondazione del Bocuse d’Or, premio dedicato ai cuochi delle nuove generazioni e che mille ne ha lanciato nell’empireo. Quanti sogni a occhi aperti pensando al giorno in cui avrei fatto io stesso la soupe aux truffes Elysée, invenzione bocusiana dedicata all’allora presidente della Repubblica Giscard d’Estaing, dove tartufi e brodo di pollo sono cotti in tazze individuali sotto un tetto di pasta sfoglia, come vedete nella foto. E poi misteriosamente questo libro talismano si perse. Che grande malinconia. Smisi di cucinare Bocuse, sognando di mangiare alla sua mensa, il leggendario ristorante a Collonges-au-Montd’Or. Ma l’amicizia è la cosa che salva sempre tutto e un giorno conobbi la grande Maria Sole Tognazzi e lei mi invitò a casa, nella villa dove era cresciuta con sua mamma Franca Bettoja e suo papà Ugo, mito del nostro cinema, ovvio, ma anche cuciniere folle di cui parlerò presto. E proprio nella biblioteca di Tognazzi ritrovai il libro sacro della mia memoria. Sole vide la mia emozione e con gesto di rara generosità me lo regalò. Bocuse ci ha lasciato lo scorso gennaio, io non sono mai andato al suo ristorante e mai ci andrò, perché penso che Paul Bocuse un po’ sia entrato in me.