ALLA FINE SONO CRESCIUTO ANCH’IO
Prima faceva solo commedie, dopo è diventato il «bastardo» per eccellenza del cinema italiano, adesso è la pecora nera di una famiglia allegra e disordinata. Gian Marco Tognazzi ama mettersi alla prova. Ma non ai fornelli, dove il papà Ugo era maestro
Tempo di chiacchierata: 70 minuti. Quanto ci vuole da Velletri – la tenuta di famiglia che era di papà Ugo e dove Gian Marco Tognazzi vive con la moglie Valeria Pintore e i figli Andrea Viola e Tommaso Ugo, 11 anni e 5 – per raggiungere gli studi romani in cui girerà per tutta l’estate Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno. Sul film, che arriverà al cinema il 10 gennaio, vige il top secret. Fa fede solo la dichiarazione dello sceneggiatore, Nicola Guaglianone, che lo ha definito «un incrocio fra Ritorno al futuro e Romanzo criminale». Nel Romanzo criminale di Michele Placido lei aveva una parte molto oscura, trait d’union fra Stato e mafia. Torna cattivo? «Nel film non posso dirlo, nella vita sono fin troppo buono, tanto che da piccolo il mio soprannome era Pollo. Poi, adolescente, ho fatto qualche cazzata, ma niente di grave». Quando è uscito A casa tutti bene di Gabriele Muccino, per il quale l’intero cast ha appena vinto il Nastro d’argento collettivo, ha spiegato che il suo personaggio di Riccardino – il «disgraziato» di famiglia – aveva diverse affinità con lei da ragazzo.
«Era il mio bisogno di farmi vedere da un padre che c’era a sprazzi, circondato da un mondo invasivo. Da timido, facevo il clown per avere attenzione. Ero eccessivo, cialtronesco, fuori luogo come Riccardino. Mentre oggi ho una vita privata molto riservata». E suo padre allora come reagiva? «Facevamo insieme siparietti: io la spalla, lui il comico che mi riempiva di critiche e sfottò. Ma è una cosa genetica, che si tramanda di Tognazzi in Tognazzi». Anche ai suoi figli? «Si vede che hanno l’indole Tognazzi, anche se Andrea è meno esibizionista: ha una grande passione per la danza classica e questo chiede una forte autodisciplina». Mentre con Tommaso divide la passione per il calcio. «Per il Milan. La prima partita che abbiamo visto insieme è stata Milan-Bologna, la stessa della mia prima volta allo stadio con Ugo. In ogni caso io ho una mia teoria: praticare sport fa malissimo, mentre fa bene guardarlo». C’è qualche errore di suo padre che si è ripromesso di non commettere con i figli? «No. Da piccolo volevo più attenzioni, ma ho capito che era già un miracolo che riuscisse a gestire tutto. Oggi ho le sue stesse difficoltà. E poi Ugo aveva un grandissimo rapporto con i bambini, era lui stesso bambino: è la chiave dell’ingenuità e spontaneità che l’attore deve mantenere, senza le maschere che mettiamo su da adulti. Da grande, ho riscoperto mio padre, sono il suo archiviatore: è la continuazione della specie». Il nome Gian Marco è l’incrocio di quello dei suoi padrini Gian Luigi Rondi e Marco Ferreri, ma il suo soprannome è Gimbo: perché? «Viene da due film di Giulio Base degli anni ’90, dove ero un adulto con la testa da bambino, e se la serie fosse continuata sarei cresciuto fisicamente ma regredito mentalmente. Passare da Pollo a Gimbo è stato il modo per dare la dimensione di come sono, serio ma anche un po’ cazzone». Un «cazzone» con i baffi. «Li tengo per il film. Ma io non ho un grande rapporto con lo specchio, non mi guardo. Ho scoperto in un’intervista che anche Ugo non si specchiava mai, non si piaceva». A 50 anni, lei comunque è molto in forma. «Perché amo bere il mio vino della Tognazza. È un’altra delle mie teorie, come quella che il sesso non si fa più, a meno di cimentarsi nelle posizioni nuove che ho inventato». Per esempio? «La Pentolaccia: è molto rude e ci vuole il paiolo per la polenta. Poi c’è l’Altalena messicana, lo Sfasciacaprismo...». A Valeria piacciono? «Sa che è un grande cazzeggio. E che non mi conviene farle sul serio: mi metterebbe a terra con una mossa di karate». In Non ci resta che il crimine lei ritrova Alessandro Gassmann: a lungo siete stati una coppia cinematografica. «Ma stavolta siamo una doppia coppia: c’è anche Giallini, con cui Alessandro ha fatto diversi film». Da tanto comunque lei e Gassmann, amici fin da ragazzi come lo erano i vostri padri, Ugo e Vittorio, non lavoravate insieme. «Non è dipeso da noi. In coda ai film con lui mi hanno chiamato per Romanzo criminale ed è stata una opportunità importantissima. Però a quel punto il cinema mi ha legato a lungo all’idea che potessi fare soltanto i bastardi. Mentre fino ad allora mi dicevano che potevo fare solo commedie. Sono cliché che io cerco di scardinare. Il bello dell’attore è alzare l’asticella, se no rischi di rifare sempre la stessa cosa».
Ma fuori dal lavoro lei frequenta altri attori? Suo padre era famoso per le cene che organizzava. «Una volta gli impegni si sapevano con largo anticipo, era più facile incontrarsi. Oggi è complicato, e non solo perché vivo a Velletri e mi metto molto meno di Ugo ai fornelli». A proposito di fornelli: lei ha condotto il talent gastronomico Chopped Italia. «E spero di riprenderlo. Mi sono divertito moltissimo, mi ha fatto ricordare tante cose del mio rapporto con Ugo, il fatto che sono tornato in campagna per riappropriarmi dell’infanzia legata al cibo e alla terra». Ma lei mi sa che non è un gran cuoco. «Io sarei un gran cuoco ma, come a scuola, non mi applico. Mi concentro più sulla vigna. Abbiamo appena presentato la prima bottiglia di vino al mondo in carbonio. Poi, c’è la gestione della casa museo di Ugo, le serate che organizziamo con Gli amici di Ugo, gli incontri di cultura e vino... la cucina ha bisogno del suo tempo, non puoi stare ai fornelli a 200 all’ora». Ma riesce a star dietro a tutto? «Ho dovuto rinunciare a molte proposte. Mi è spiaciuto soprattutto dire no a Leonardo Pieraccioni: avevamo cominciato insieme, ai tempi dei Laureati, è stato un periodo bellissimo».
«ERO ECCESSIVO, CIALTRONESCO, UN PAGLIACCIO. OGGI SONO RISERVATO»