Vanity Fair (Italy)

in 5 domande

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Come si descrive in poche righe?

«Amo l’imprevisto, non l’abitudine e sono capace di colpi di testa. In amore sono uno che vuole i suoi spazi. Mi ispirano le storie di uomini che reagiscono, arrancano e riescono a non cadere mai. Per questo adoro leggere libri di John Fante e Jack London».

La prima volta sul palco o sul set?

«Ho cominciato a tre anni a teatro nel Barone di Münchhause­n, interpreta­to da mio padre. Facevo l’ultima scena. Me ne stavo ogni sera seduto in prima fila. Quando era il mio turno, mia madre, seduta accanto a me, mi dava una spintarell­a e io salivo sul palco... un ricordo dolcissimo».

Quali sono i suoi hobby fuori dal set?

«Mi piace bere bene, da buon veronese. Un bicchiere di Barolo o di Amarone con gli amici mi svolta la giornata. Poi il rugby, ci ho giocato da adolescent­e per sei anni. Mi piace la filosofia che ci sta dietro, ti insegna a puntare sul sostegno di chi è intorno a te. Annulla l’individual­ismo».

Lei posta poco di sé sui social. Non le piacciono?

«La tecnologia è utile, ma la trovo invadente. Ho un cellulare vecchio modello, che non fa nemmeno foto e non naviga in Rete. Mi fa sentire più libero. Quando mi sono trasferito a Milano da Roma l’ho fatto in moto e mi sono perso sugli Appennini... forse l’ho fatto apposta, per godermi la strada e il panorama».

Il suo prossimo sogno?

«Lavorare con Nicolas Winding Refn, capace di mischiare violenza e tenerezza, regista di capolavori come Drive e Bronson, con Tom Hardy, il miglior attore in circolazio­ne».

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