La falsa ereditiera
Si incontrano a New York, si frequentano. Poi, Anna Delvey invita l’amica giornalista per una lussuosissima vacanza in Marocco. E da lì inizia un viaggio negli inferi delle carte di credito
Il compleanno che dovrò ricordare è stato quello del 29 gennaio 2017, giorno in cui ho compiuto 29 anni. Avevo una netta sensazione riguardo al mio trentesimo anno di vita: sarebbe stato speciale, e bellissimo. Invece è stato un disastro. Tutto era iniziato con Anna. Vestita come sempre in total black e con gli occhiali da sole oversize, si era seduta accanto a me nel suv, smanettando sul telefono. Eravamo in ritardo. Anna era sempre in ritardo. Dall’11 Howard, l’hotel alla moda che per lei era stato casa nei tre mesi precedenti, partimmo alla volta del Mercer, l’hotel in cui aveva intenzione di trasferirsi al ritorno dal nostro viaggio. Lì scaricammo le valigie Rimowa (tutte tranne una) e ripartimmo per il J.F.K., per volare a Marrakech. Avevo conosciuto Anna a inizio 2016, all’Happy Ending, ristorante-lounge in Broome Street, con bistrot e locale notturno. Ero con un gruppo che frequentavo quasi solo per uscire la sera, amici della moda che avevo incontrato quando mi ero trasferita in città, nel 2010. Non ricordo cosa fosse arrivato per primo, se il secchiello con ghiaccio e bicchieri oppure Anna Delvey, ma so che era apparsa, e con lei era arrivato da bere. L’avevo già vista su Instagram, sorridente agli eventi, spesso accanto a miei amici e conoscenti. Avevo visto che @annadelvey aveva 40 mila follower. Aveva un viso da cherubino, enormi occhi azzurri e labbra imbronciate. Avevamo iniziato a parlare di come avesse conosciuto i miei amici. Aveva detto di aver fatto uno stage alla rivista Purple a Parigi (l’avevo vista in qualche foto con il caporedattore). «Lavoro per Vanity Fair», le avevo detto. «Nel reparto fotografico». Era attenta e partecipe. Aveva chiesto un’altra bottiglia di vodka. Non molto tempo dopo questo incontro, avevo ricevuto un invito per cenare con Anna e un amico comune da Harry’s, una steakhouse del centro. Avevamo ordinato ostriche e un giro di espresso martini. Lei aveva raccontato di aver passato la giornata con gli avvocati e mi aveva parlato della sua fondazione, «un centro dedicato all’arte contemporanea», aveva spiegato, facendo un vago riferimento a un trust di famiglia. Progettava di affittare la storica Church Missions House, un edificio in Park Avenue, per farci un locale, un bar, gallerie d’arte, uno studio, ristoranti e un club. Per il resto del 2016 ho visto Anna ogni weekend: un drink, una cena, di solito in gruppo, ogni tanto solo noi due. In quanto cittadina tedesca in visita negli Stati Uniti, mi aveva spiegato, non aveva una residenza fissa. In autunno mi aveva comunicato che sarebbe tornata a Colonia, la sua città natale, poco prima che il suo visto scadesse. Sei mesi dopo, tornò. Sabato 13 maggio 2017 eravamo atterrate a Marrakech. Il nostro hotel aveva inviato un servizio vip ad accoglierci. La nostra destinazione era una villa con maggiordomo. Secondo Anna, pagata da lei in anticipo. L’idea della vacanza era stata sua: doveva uscire dagli Usa per rinnovare il visto e aveva pensato di andare in un posto caldo. Aveva scelto La Mamounia, resort di lusso da 7 mila dollari a notte, e si era offerta di pagare tutto anche per me. A causa di un imprevisto, avevo addebitato i biglietti aerei sulla mia American Express: Anna aveva promesso di rimborsarmi al più presto. Una settimana prima della partenza, aveva invitato a cena una personal trainer e un mio amico fotografo, cui aveva chiesto di venire con noi in Marocco per documentare il viaggio.
Il primo giorno e mezzo avevamo esplorato La Mamounia: giardini, hammam, piscina privata, cantina dei vini, ristorante con sottofondo di musica marocchina dal vivo, jazz bar. E un maggiordomo che si palesava, servendoci anguria fresca e bottiglie di rosé. Lussi cui Anna era abituata. Il suo posto fisso per cena era diventato Le Coucou. Era cliente fissa di Christian Zamora, dove andava a farsi fare extension alle ciglia da 400 dollari e ritocchi da 140. Per il colore andava al Marie Robinson Salon, da Sally Hershberger per tagliare i capelli. Aveva noleggiato un aereo privato per partecipare alla riunione degli azionisti di Berkshire Hathaway a Omaha. Ogni cosa che faceva era all’eccesso. Di solito indossava una felpa con cappuccio di Supreme, pantaloni sportivi e scarpe da ginnastica: il suo era un look lusso-relax. Era così diretta da essere spiazzante e così sicura di sé da risultare comica. Amava stare da sola, e io mi sentivo fortunata a essere una delle poche persone che le andavano a genio. Per ragioni personali e professionali, ero abituata allo stile di vita e alle stranezze dei ricchi. Non mi sentivo fuori posto in quel mondo, e mi faceva piacere che lei lo notasse. E ravamo diventate amiche e il mondo era incredibile quando c’era lei: sembrava che nessuna regola valesse più. Aveva iniziato ad allenarsi con una personal trainer e mi aveva chiesto di unirmi. Pagava lei: diceva che allenarsi in compagnia era più divertente. Lo facevamo tre o quattro volte a settimana, terminando spesso le nostre lezioni con una sauna a infrarossi. Vedevo Anna quasi ogni mattina. Dopo il lavoro, mi fermavo all’11 Howard: bevevamo vino, prima di cenare insieme. Lei mi parlava dei suoi incontri con i ristoratori, con i gestori di fondi speculativi, con avvocati e banchieri; parlava degli artisti che stimava, delle mostre che stavano per inaugurare. Provavo per lei un misto di ammirazione e compassione: non aveva molti amici, né molti contatti con la famiglia. Mi aveva raccontato che il rapporto con i suoi si basava più sugli affari che sull’affetto. Si comportava con l’impulsività e l’arroganza di una ex bambina viziata, insofferente alla disciplina. Lei audace e io timida, ci bilanciavamo: normalizzavo il suo comportamento sopra le righe, mentre lei sfidava il mio senso di correttezza, spingendomi a divertirmi.
In più, pagava tutto lei. Dopo quasi due giorni a La Mamounia, era il momento di uscire. Anna voleva delle spezie per una bella foto su Instagram e caftani marocchini. «Puoi farmi questo vestito, ma in lino nero?», aveva chiesto a una donna della Maison Du Kaftan. «Ne compro uno nero e uno bianco e, Rachel, mi piacerebbe prenderne uno anche per te». Avevo provato un paio di cose ma, insospettita dai prezzi stellari, ero uscita. Anna era andata a pagare. La sua carta di credito era stata rifiutata. «Hai detto alla tua banca che saresti andata all’estero?», le avevo domandato. «No». Mi aveva chiesto se le potevo prestare dei soldi, promettendo di rimborsarmi la settimana successiva. Avevo accettato. Al ritorno, eravamo andati a cena alla Sultana, e anche lì avevo pagato io. Martedì, mentre passavamo nell’atrio di La Mamounia, una persona dell’albergo aveva chiesto ad Anna di parlarle un attimo. Quando era tornata da noi, mi aveva rassicurata: «Devo solo chiamare la mia banca». La mattina seguente anch’io ero stata fermata: «Ha visto Miss Delvey?». Avevo chiamato Anna che era andata alla reception, tornando poco dopo, apparentemente perché la situazione si stava risolvendo. Avevamo fatto una gita e al rientro due uomini avevano preso Anna da parte. Mentre la aspettavo, un dipendente mi aveva informata che qualcuno era stato licenziato per via del problema con il pagamento della villa. Aveva aggiunto che, prima del nostro arrivo, avrebbero dovuto avere in deposito una carta di credito funzionante. Gli uomini ci avevano seguito fino alla nostra villa, e si erano piazzati all’ingresso del salotto. Il mattino dopo i due uomini del giorno prima erano tornati. Indignata, Anna si era messa a fare telefonate. Poi, aveva smesso. Gli uomini avevano insistito: serviva una carta di credito funzionante. Sia lei sia loro avevano insistito perché fossi io a mettere la carta di credito, mentre Anna cercava di risolvere la situazione con la sua banca. Avevo esattamente 410,03 dollari sul mio conto corrente.
Più tardi, quando American Express mi aveva segnalato attività di spesa irregolare sul mio conto, ero andata alla reception per capire perché quello che doveva essere solo un «blocco» preventivo si fosse trasformato in addebiti effettivi. Mi era stato detto che la cifra sarebbe stata riaccreditata sul mio conto. Avevo lasciato Marrakech il giorno successivo, da sola. All’arrivo avevo ricevuto un messaggio da Anna: mi prometteva che avrebbe fatto un bonifico il prima possibile. Aveva lasciato La Mamounia e preso un’auto per il Kasbah Tamadot di Sir Richard Branson, hotel ai piedi delle montagne dell’Alto Atlante, in Marocco. «Ti farò avere 70.000 dollari, in questo modo è tutto coperto», mi aveva scritto. All’improvviso avevo capito che intendeva lasciare sul mio conto l’addebito dell’albergo: era più del mio stipendio annuo. Ci eravamo poi sentite ogni giorno, ma la settimana successiva non avevo ricevuto alcun bonifico. Credevo fosse colpa della sua disorganizzazione. Mi sentivo frustrata, ma pensavo che un bonifico internazionale potesse richiedere tempi più lunghi. Via via i suoi messaggi di giustificazione diventavano sempre più kafkiani. Quando era tornata a New York, Anna era andata all’hotel Beekman. Mi confortava sapere che era fisicamente vicina a me, non lontano dal mio ufficio al World Trade Center. Almeno sapevo dove trovarla. Assurdamente mi aveva invitata alle solite lezioni con la personal trainer. Avevo detto di no. Ottenere il rimborso era diventato un lavoro a tempo pieno. Lo stress non mi faceva dormire la notte e mi consumava di giorno. Alla fine, un mese dopo la partenza da Marrakech, Anna aveva annunciato di aver ottenuto il modo per farmi un assegno circolare, e che lo avrebbe depositato sul mio conto in mattinata. Avrei dovuto essere sollevata, e invece ero scettica. La mattina seguente mi ero presentata al Beekman senza preavviso e l’avevo fatta chiamare dal concierge. Aveva risposto con voce intontita. La sua stanza era un disastro: fogli, valigie traboccanti di roba. «Dov’è l’assegno?», le avevo chiesto. Aveva cercato in quel caos, prima di dirmi che forse l’aveva lasciato nella Tesla che aveva usato il giorno prima. Aveva chiamato la concessionaria Tesla e poi il suo studio legale. Mi ero rifiutata di andarmene. Ero andata con lei al Le Coucou, dove aveva incontrato un avvocato e un consulente patrimoniale. L’avevo seguita nell’atrio del Beekman, dove aveva ordinato ostriche e una bottiglia di vino bianco. Ero rimasta seduta in silenzio. Alla fine me n’ero andata indignata, riferendole che sarei tornata la mattina seguente alle otto per andare insieme in banca.
La mattina dopo ero arrivata puntuale in albergo. Anna non c’era. Era ciò che temevo. Alla fine – perché non l’avessi fatto prima, non so – avevo iniziato a indagare sul suo conto. Mi ero messa in contatto con un tizio che a sua volta le aveva prestato denaro. Era tedesco, come lei, e l’aveva conosciuta a Parigi. Mi aveva detto che, dopo settimane di tallonamento, aveva ottenuto i suoi soldi minacciandola di coinvolgere le autorità e facendo leva sulla cosa che Anna temeva più di ogni altra: essere rimandata a casa. «Suo padre è un miliardario russo», aveva detto. «Trasporta petrolio». Ma a me aveva raccontato che i suoi genitori lavoravano nel settore dell’energia solare. Anna gli aveva detto che avrebbe dovuto ereditare 10 milioni di dollari per il suo 26° compleanno, il gennaio precedente, ma che, visto che spendeva troppo, suo padre aveva disposto che l’eredità venisse posticipata di qualche mese. Avevo cercato un modo per contattare i genitori di Anna, ma non avevo trovato nulla. Nella settimana del 4 luglio, mentre ero in South Carolina con la mia famiglia, avevo ricevuto un messaggio dalla trainer: Anna dormiva sul divano del suo appartamento. Due giorni dopo Anna mi aveva mandato un messaggio, chiedendo se poteva fermarsi qualche tempo da me. Avevo detto di no. Il giorno seguente mi aveva chiamata piangendo. «Ok, puoi venire, ma non puoi restare», avevo sottolineato. Dopo un’ora suonava al campanello. Il mio minuscolo appartamento era in uno stato di caos, la manifestazione fisica del mio stato mentale. Avevo deciso di porgere l’altra guancia: avevo ordinato due insalatone e fatto partire Il diario di Bridget Jones. Quando mi aveva chiesto di dormire sul divano, non mi ero sorpresa. Anche a quel punto avevo cercato di giustificarla: la mia amica aveva avuto una serie di sfortunatissime coincidenze, ma presto tutto si sarebbe risolto. Questo tipo di ottimismo era il mio tallone d’Achille.
«Mi prometteva di rimborsarmi, ma i suoi messaggi diventavano sempre più kafkiani»
Anna, invece, poteva essere terribile. A un certo punto, prima di partire per il Marocco, la direzione dell’11 Howard le aveva chiesto di pagare le sue prenotazioni in anticipo. Lei si era infuriata; come punizione, una volta fatto il checkout, mi aveva raccontato, aveva acquistato i domini Internet corrispondenti ai nomi dei direttori dell’hotel, per poi inviare loro una email e mostrare quel che aveva fatto. «Ora li venderò per un milione di dollari ciascuno», mi aveva detto. Il primo giorno di agosto sono entrata in una stazione di polizia a Chinatown. Ho raccontato la mia storia a un tenente che mi aveva risposto che per la vicenda del Marocco non poteva intervenire: c’era un problema giurisdizionale. Poi aveva suggerito di rivolgermi al tribunale civile. L’avevo fatto. Lì mi avevano mostrato opuscoli di avvocati pro bono e leghe di difesa degli artisti, ma il denaro in questione superava il limite finanziario del tribunale civile, aveva spiegato. Ero uscita sconvolta. Anna era riapparsa, citofonando alla trainer. Lei mi aveva chiamata e avevamo deciso di affrontarla insieme. C’eravamo trovate al Frying Pan, un bar sulla West Side Highway. Anna piangeva: «Avete sentito cosa dicono su di me?». A quanto pare, la sera prima il New York Post aveva pubblicato un pezzo che la definiva «un’aspirante della mondanità». «Vogliamo aiutarti», aveva detto la trainer. «Ma abbiamo bisogno che tu sia sincera». E via la solita tiritera: non era vero nulla, insisteva. Mentre le voci e le accuse crescevano di tono, il viso di Anna diventava vuoto. Improvvisamente avevo realizzato che non la conoscevo affatto. Una vera epifania, che era coincisa con una sorta di liberazione e una strana sensazione di calma. Il giorno dopo avevo inviato una email all’ufficio del procuratore distrettuale della contea di New York, linkando un articolo su Anna: «Credo che questa ragazza sia una truffatrice», avevo scritto. Un’ora dopo, il mio cellulare suonava: un assistente procuratore distrettuale confermava che Anna Sorokin (altrimenti nota come Anna Delvey) era al centro di un’indagine criminale in corso. L’ultimo mercoledì di agosto ero in una stanza dei giurati di Manhattan: quasi due dozzine di facce. Una ragazza della mia età mi aveva chiesto: «Giura di dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità?». Sì. Non ero l’unica ad aver creduto in Anna. All’udienza del gran giurì, era stata incriminata con sei accuse.
Avevo compreso la portata della sua truffa solo leggendo l’intero atto di accusa. Anna era stata accusata di avere falsificato documenti di banche internazionali che le attribuivano conti esteri per un fantomatico saldo totale di circa 60 milioni di euro. Anna aveva portato questi documenti alla City National Bank nel tentativo di ottenere un prestito di 22 milioni di dollari per la creazione della sua fondazione artistica. Quando la City National Bank le aveva negato il prestito, aveva portato gli stessi documenti al Fortress Investment Group. Fortress aveva accettato di prendere in considerazione il prestito solo se Anna avesse fornito 100 mila dollari per coprire le spese legali. Il 12 gennaio 2017, Anna aveva ottenuto un prestito di 100.000 dollari dalla City National Bank, convincendo un rappresentante della banca a concederle uno scoperto bancario. Aveva poi dato i soldi in prestito a Fortress. A febbraio Fortress aveva usato circa 45 mila dollari del deposito di 100 mila di Anna e stava tentando di verificare i suoi beni per elargirle il prestito. A quel punto, Anna si era tirata indietro. A me aveva detto che suo padre aveva ricevuto una soffiata sull’affare e che non gli stavano bene i termini. Si era ritirata dalla trattativa e aveva tenuto i rimanenti 55 mila dollari dal prestito della City National Bank, che Fortress le aveva restituito. A quanto pare, è così che ha mantenuto il suo stile di vita: l’11 Howard, le cene, le sessioni di allenamento private, lo shopping. Tra il 7 e l’11 aprile, Anna avrebbe depositato 160 mila dollari in assegni scoperti sul suo conto Citibank e trasferito 70 mila dollari dal conto prima che gli assegni fossero rimbalzati. In agosto aveva aperto un conto con la Signature Bank e depositato 15 mila dollari in assegni scoperti. Aveva ritirato circa 8.200 dollari in contanti prima che il conto venisse chiuso. Queste cifre che migrano da un conto all’altro dimostrano come Anna abbia orchestrato una strategia elaboratissima: faceva dei giochi di prestigio per mantenere un’apparenza scintillante e senza problemi. Qualsiasi cosa poteva essere comprata, ovunque volesse andare bastava chiamare un taxi o un aereo. Il 9 giugno, Anna mi ha inviato 5.000 dollari tramite PayPal. Questo gesto mi ha turbata. Ho ripreso le comunicazioni con lei tramite un messaggio, senza lasciare intendere che qualcosa fosse cambiato. È andata sulla costa occidentale ed è stata ricoverata in un rehab di Malibu. A inizio ottobre, mentre mi trovavo a Beverly Hills per lavoro, avevamo organizzato un pranzo insieme. Non l’abbiamo mai fatto. È stata arrestata a Los Angeles il 3 ottobre e incarcerata a Manhattan il 26. Al momento è detenuta senza cauzione a Rikers Island. Una volta Anna mi ha detto che i suoi obiettivi erano o di trovare una soluzione o di mandare tutto a rotoli. Ora capisco cosa intendeva. Era un trucco di magia, e provo imbarazzo nel dire che ero uno degli oggetti di scena, oltre a far parte del suo pubblico. Anna è stata come un bel sogno newyorkese, come una di quelle notti che sembrano non finire mai. E poi arriva il conto da pagare.