Vi ricordate quel bimbo?
«Si chiamava Alan, non Aylan», spiega sua zia, Tima Kurdi. Che ha scritto un libro per rendere giustizia al piccolo siriano diventato una foto simbolo dell’orrore. E che ora potrebbe aiutarci nel «caso Aquarius»
AMatteo Salvini dico questo: riguardi la foto di Alan. O se ne è già dimenticato? So che anche lui ha figli: mio nipote era esattamente come loro». A parlare è Tima Kurdi (sotto), la zia del bambino siriano morto annegato nel settembre del 2015 durante la traversata dalla Turchia alla Grecia, insieme al padre Abdullah, fratello di Tima, unico sopravvissuto, alla madre e al fratello Ghalib, entrambi morti. La foto del suo corpo senza vita riverso sulla spiaggia fu uno schiaffo e una presa di coscienza mondiale, la consapevolezza che guardare dall’altra parte non era più possibile. Almeno per qualche mese. Oggi, mentre la nave Aquarius con 106 degli iniziali 630 migranti a bordo ha attraccato a Valencia, grazie all’intervento del governo spagnolo che ha deciso di accogliere i passeggeri, ricordare quella foto e la storia di Alan può servire a non perdere di vista che si tratta di esseri umani, che potremmo essere noi. Che è poi uno dei motivi per cui Tima ha scritto un libro, The Boy on the Beach (in Italia uscirà per Piemme), la storia della sua famiglia passata da una vita serena a Damasco alla guerra, alla decisione di lasciare la Siria per la Turchia e poi di proseguire per la Grecia, su una barca piena di clandestini. Per mesi Tima, che è emigrata nel 1992, ha cercato di portare il fratello Abdullah, la moglie e i bambini in Canada, dove lei vive con il marito. «Purtroppo molti siriani a causa della guerra non avevano più un passaporto valido, per cui partire era impossibile. Avevano una carta d’identità turca come rifugiati, ma per le autorità canadesi non era abbastanza». Esaurite le opzioni, è lei che dà al fratello i cinquemila euro per la traversata. «È il rammarico più grande della mia vita, un senso di colpa che porterò con me nella tomba. Un peso che mi ha cambiato la vita. Quello che però voglio far capire è che una decisione del genere è dettata dalla disperazione. È difficile da spiegare, io stessa ero contraria, e con mio fratello abbiamo discusso per mesi. Ma quando non vedi futuro per i tuoi bambini, qualcosa in te scatta». So che sta seguendo le vicende della nave Aquarius. «Mi spezza il cuore. Che tipo di essere umano è quello che gira le spalle alla disperazione di questi individui? Senza contare che per molti l’Italia, come la Grecia, non è un punto di arrivo, ma solo di passaggio. Certo, ora nessuno li vuole accogliere, l’Europa è satura, ma si tratta di gente
innocente che scappa da situazioni orribili: cosa faremmo noi al loro posto? Forse lo stesso. La migrazione è figlia della guerra e della povertà: non c’è soluzione al problema se non ci si occupa anche di fermare le guerre in Siria o in Libia. È di questo che i leader del mondo dovrebbero discutere. La pace è l’unica soluzione duratura. Smettiamola di finanziare le guerre. Nel frattempo non si possono però lasciare affogare degli innocenti». Perché ha deciso di scrivere un libro su Alan? «Per rendergli giustizia, anche sulle piccole cose. Il nome, per esempio: è Alan, non Aylan. Sa quanto male mi fa vedere che molti lo sbagliano? E poi l’età: aveva due anni, non tre. Nel libro racconto anche della nostra vita a Damasco, prima della guerra: voglio che la gente capisca che i rifugiati sono persone normali, costrette ad abbandonare vite serene e confortevoli per colpe non loro». La sua morte è servita a qualcosa? «Nella mia famiglia avevamo un detto: la storia è fatta per essere ricordata, non ripetuta. Sarebbe bello pensare che grazie ad Alan gli sbarchi sono cessati, ma non è così. Quello che è successo ha però cambiato la mia vita: ero una donna della media borghesia, madre, moglie, mi piaceva cucinare e viaggiare. Alle tragedie altrui reagivo con empatia, donando soldi in beneficenza. Con la guerra, e soprattutto con la morte di Alan e Ghalib, tornare a quella vita non è stato più possibile: oggi sento che è mio dovere morale tenere viva la loro memoria». Dove vive ora suo fratello? «In Kurdistan. Andare in Europa non gli interessa più: voleva farlo per i suoi bambini, senza di loro non ha senso».