IL COLORE NERO
Unire parole e fotografie è ormai il suo segno distintivo: lo scrittore americano di origini nigeriane torna con un libro pieno di luce ed entusiasmi. E con noi riflette sulla presidenza Trump, il potere dei social media, il ruolo degli intellettuali e co
Teju Cole scrive libri pieni di luce; se dovessi nominare uno solo dei suoi talenti, userei una frase che lui stesso riferisce a Luigi Ghirri: «Sa svegliare il mondo inanimato grazie alla luce». Con chiarezza adamantina, che in lui è un prodotto della pulizia mentale, riesce a isolare e rifilare i concetti più complessi, come quello di blackness, magnificamente tradotto con «nerità»: «Non c’è un unico nero, ma molte sfumature. È molteplice e generativo, spazioso e dissenziente» e poi arriva a parlare di «arcobaleno nero». Nel suo ultimo libro, L’estraneo e il noto, scolpisce frasi lapidarie. «Ovunque mi trovi, mi sento il custode di un corpo nero», e si intuisce tutto il dolore, e l’orgoglio. Oppure: «Il corpo nero è giudicato a priori, e quindi messo inutilmente in pericolo». E anche: «La fotografia debole lancia un breve messaggio – dolcezza, pathos, humour – e non riesce a fare altro. Ma noi siamo fatti anche di altro». L’estraneo e il noto è una raccolta di saggi «che segue alcuni dei miei entusiasmi più vitali»: la fotografia, la letteratura, la musica, i viaggi, la politica. Come è ormai suo segno distintivo, usa insieme parole e fotografie, motivo per cui, soprattutto ai tempi di Città aperta (2012) – il primo romanzo dove faceva camminare per New York un personaggio che gli assomigliava molto e i cui pensieri scrosciavano di continuo tra il dentro e il fuori – lo avevano paragonato al tedesco W.G. Sebald. Eppure, quella forma esteriore arriva da tutt’altra parte, e cioè da come in Internet testo e foto sono inseparabili, e più che illustrarsi a vicenda stabiliscono mood e panorami. Spazio, lingua, memoria: tutte le sue opere parlano in fondo di questo. E possono essere libri, fotografie (nel 2016 per Contrasto era uscito il photobook Punto d’ombra diventato poi una mostra), social network (il suo profilo Instagram è un lungo catalogo di opere d’arte accompagnate da riflessioni) e, ora, playlist. Su Spotify, il servizio di musica in streaming, Cole pubblica regolarmente delle compilation. L’ultima si intitola One Night in Accra, e mette voglia di ballare. «Bella, no?», mi dice dalla sua casa di Sunset Park, a Brooklyn. «La musica dell’Africa occidentale è euforica». Perché le playlist? «Penso sempre alla musica, la ascolto tutto il giorno, di qualsiasi tipo. Posso svegliarmi con Šostakovič e addormentarmi con Tupac Shakur. Ascolto anche il pop italiano, tipo Lucio Dalla. Di solito, sto lavorando ad almeno tre liste, e devo esserne convinto per pubblicarne una. Internet ha reso più facile condividere questo amore. Per me le playlist non sono che un’altra forma di intimità». Nel libro, il senso che emerge sopra gli altri è la vista, in un sotterraneo invito a guardare. «È la totalità dei sensi a essere importante. Siamo come radar nel mondo. Il senso di caldo e di freddo, dello spazio, della pressione atmosferica, il modo in cui percepiamo l’ambiente: penso siano i veri soggetti del mio lavoro. In questo, la vista ha un ruolo molto importante. I miei occhi sono la mia vera pelle, quella che raggiunge e tocca il mondo». In un saggio, racconta di quando a 17 anni da Lagos, in Nigeria, tornò a Kalamazoo, la cittadina del Michigan dove la madre lo aveva partorito, per fare l’università. Di come quelle prime sere di panico e solitudine trasfigurarono i falsi ricordi di un’America mai
conosciuta, un posto che lo sconvolgeva sia perché «la gente sembrava non vergognarsi di nulla», sia per il divario tra neri e bianchi, un fossato ancora più largo da quando c’è Trump. «Oggi certe cose sono più visibili, ma non è lui la causa», dice Cole. «La supremazia bianca è un fatto, come anche che la società è organizzata per favorire i bianchi, dalla casa alle scuole, alla sicurezza. Queste cose non sono mai sparite, anche se la gente diceva “amiamo Obama”, “siamo tutti uguali”. La verità è che il razzismo c’è, eccome. Razzismo non è insultare un altro, razzismo è l’evidenza che le persone di colore soffrono di più, economicamente e socialmente». In un articolo, Cole aveva scritto che Trump non sarebbe diventato presidente senza Twitter, così gli domando se vede possibile anche l’inverso: «La verità è che i social sono potenti, complessi e imprevedibili. Se mi chiede una previsione, penso che otterrà anche il secondo mandato. Ma le variabili sono numerose. Quello che so con certezza è che la situazione oggi è pessima, l’ordine costituzionale Nell’Estraneo e il noto tocca i temi più vari: il maestro John Berger; il corpus fotografico dei maliani Seydou Keïta e Malick Sidibé, tra i più grandi fotografi africani; le possibilità di Google View; i droni; un viaggio in Brasile all’inseguimento di una foto; la passione per Guido Guidi, fotografo cesenate. La sua predilezione va sempre a quegli autori che hanno un approccio affettivo al paesaggio. Eppure, come molti, la prima cosa che guarda, ogni mattina, è lo schermo del suo cellulare: «Non è una bella cosa, anche perché le notizie non sono quasi mai buone. A salvarmi però c’è Instagram, dove trovo immagini più gentili, scattate dagli amici che seguo: il percorso per andare al lavoro, la catena montuosa vicino a dove vivono, la camera dei bambini, la vita di ogni giorno». E prima di dormire? «Sono un amante del cinema, e prima di andare a letto guardo sempre un film. Se è buono, mi addormento con in testa le immagini di un bravo regista». In un altro saggio, uno dei più belli, intitolato Corpo nero, parla del suo viaggio in Svizzera del 2014 sulle orme dello scrittore James Baldwin che, nel 1951, nel paesino di Leukerbad, unico nero in un borgo di bianchi, terminò il primo romanzo Gridalo forte. Qualche riga più sotto, Teju rivela di essere stato, da bambino e proprio come il suo maestro, un «predicatore». In che senso? «A scuola facevo parte di un gruppo cristiano evangelico. Il periodo religioso è stato una parte molto importante della mia vita, è durato dai 13 ai 28 anni». Conoscerà bene la Bibbia, quindi. «Dall’inizio alla fine. Pur non credendo più in alcuni degli assunti della fede, tipo il Paradiso, quelle letture mi hanno fornito un modo per parlare delle esperienze più profonde della vita, una lingua dell’amore, della consolazione, della speranza. Continuano a tornarmi in mente le parole di Gesù che guarisce il cieco, o quando Lazzaro muore e il pianto delle sorelle lo commuove. Tutto questo è così potentemente umano. Negli anni alla Bibbia poi si sono aggiunti Omero, l’Iliade, e i poeti che amo, Elizabeth Bishop, Wislawa Szymborska, Giorgos Seferis, Tomas Tranströmer, Séamus Heaney». Qual è il ruolo dell’arte in questo periodo di crisi? «È indiretto, lento, ma cruciale. Io per esempio non sono un teorico, ma leggo molti critici, tra cui Ariella Azoulay e Giorgio Agamben. Se grazie a quelle letture scrivo un pezzo per il New York Times, le loro idee possono arrivare a un pubblico molto più ampio e magari qualcuno può esserne influenzato. Le idee filosofiche non cambiano le cose domani, ma magari tra due anni. Anche se a volte ci sembra che quello che facciamo non cambi nulla, un lavoro bello e impegnativo è una consolazione. E venire consolati quando si soffre è importante». Quando l’ho conosciuto, nel periodo svizzero, Teju mi ha detto: «Il centro di ciò che faccio è sempre stato: il mondo è interessante e io voglio rispondergli». Anche adesso, leggendolo di nuovo, si percepisce un senso di possibilità: che le cose sono difficili, ma se ci crediamo diventano possibili.