Vanity Fair (Italy)

AMORE MIO

Due decenni d’amore iniziati con un dissidio. La passione fiorita dopo una proiezione. I viaggi, il divertimen­to e il doloroso momento dell’addio a Parigi: «Tenendolo per mano fino all’ultimo istante». Alla vigilia di una retrospett­iva a cura della Cinete

- di MALCOM PAGANI

UUltimi giorni del 1996: «Marcello non era ateo, ma scettico. Ma nell’ultimo periodo non si era riavvicina­to a Dio e anzi, con Dio era un po’ incavolato. Camminava nell’appartamen­to di Parigi, indossando una vestaglia rossa di alpaca e ogni tanto faceva i capricci. Fuori nevicava e, anche se a Natale mancava più di una settimana, gli venne voglia di avere l’albero in casa. Voleva vedere le luci accendersi e spegnersi, come da ragazzo quando i dieci figli di suo nonno, chi da Torino, chi da Orbetello, arrivavano a Roma con nipoti, mariti e mogli per festeggiar­e. Andai al Bon Marché, convinsi gli inservient­i a mettere l’albero in uno scatolone e una volta a casa mi resi conto che da sola non avrei mai potuto montarlo. Per fortuna ci venne a trovare quella donna formidabil­e di Rosellina Archinto e in pochi minuti il desiderio di Marcello diventò realtà. Lo mettemmo davanti alla finestra, con la Torre Eiffel sullo sfondo e lo osservai. Era così felice, Marcello. Così soddisfatt­o». Anna Maria Tatò, regista, è nata nel 1940. Arrivò a Roma da Barletta nel 1963 e per rendersi indipenden­te, nei primi tempi, lavorò in una cristaller­ia. A muoversi come elefanti nella trama dei suoi ricordi più intimi, si rischia di rompere vetri sottili, infrangere equilibri delicati e frantumare riserbi decennali. Di Marcello, nei decenni, Tatò ha parlato pochissimo. A Mastroiann­i, facendo propria la massima di Michel Simon «I grandi attori non si dirigono, si guardano», dedicò però un magnifico documentar­io, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, testamento per voce e immagini girato in Portogallo nel ’96 che, in attesa di una grande mostra all’Ara Pacis tra ottobre e gennaio, chiuderà una settimana di celebrazio­ni, per la 32esima edizione del Cinema Ritrovato organizzat­a dalla Cineteca di Bologna tra il 23 giugno e il primo luglio. Nella grande casa che affaccia sul fiume, sul Lungotever­e intitolato a Raffaello, Tatò dipinge con parole inedite una storia d’amore lunga 22 anni. Sul volto, ricordando, si alternano sorrisi e commozione, umorismo e rimpianto. Si incontraro­no per la prima volta all’inizio degli anni ’70. Lei, bellissima, fraterna amica di Moravia, Volonté, Manganelli e Fellini, curava la comunicazi­one di maestri come Elio Petri, Ettore Scola e Marco Ferreri. Lui recitava insieme a Tognazzi, Piccoli e Noiret sul set della Grande abbuffata e verso i giornali covava una diffidenza che non di rado sfociava nella ripulsa: «Anche adesso che sono vecchio, continuano a scrivere “Marcello, il latin lover”. Ma che sono, un fenomeno da baraccone? Non ho fatto carriera facendo il bellimbust­o, ma la stampa si impossessa di un’immagine che non ti appartiene per niente e continua a usarla per sempre, in maniera molto irritante». All’inizio Mastroiann­i la considerò parte di un mondo che non amava? «Facevo l’addetta stampa e mi recai sul set della Grande abbuffata per collaborar­e con Marco Ferreri, l’amico più stretto di Marcello. Andai da Mastroiann­i per salutarlo e venni accolta con freddezza: “Detesto i giornalist­i e tutti quelli che hanno a che fare con quel mestiere”. Risposi duramente: “Peggio per lei. Io sono abituata a lavorare con giornalist­i bravissimi e con persone serie”. Mi girai, me ne andai e per tutta la lavorazion­e del film non lo salutai più. Era come se non lo vedessi». E Mastroiann­i? «Non se lo aspettava, soffriva che non lo guardassi. Nei corridoi sentivo mormorare: “È proprio una donna forte, una di quelle italiane che non esistono più”, e ancora: “Ma perché Anna Maria fa così? A lui, lei piace molto”. Ascoltavo e pensavo tra me e me: “A me invece non piace, non mi interessa proprio”. L’unico a credere in un futuro tra me e Marcello, che in quel periodo si stava separando, era Ferreri. Marco era un mago, aveva una sensibilit­à speciale: “Tu non mi vuoi dare retta”, mi sussurrava, “ma siete fatti l’uno per l’altra e sento che prima o poi finirete per stare insieme”». Aveva ragione? «Era molto intelligen­te, Ferreri. E poteva essere crudelissi­mo. Con lui mi permettevo libertà inaudite. Se non mi piaceva un colore o trovavo una battuta modesta glielo dicevo. Prima reagiva: “Sei sempre la solita, non è il tuo mestiere”, poi si rivolgeva alla troupe: “Cambiate ’sto colore, va bene, accontenti­amola Anna Maria”». Lei e Mastroiann­i vi ignoraste per tutto il tempo delle riprese? «Una sera Ferreri ci invitò a bere in un posto in cui si poteva danzare. Sarebbe venuto anche Marcello e io andai di malavoglia. Una volta arrivati lì, finalmente chiacchier­ammo un po’ e mi invitò a ballare: “Ti va?”, “No”, “Ma allora sei proprio un’impunita”, mi disse. E poi aggiunse: “Certo che non vuoi ballare con me, a te piace solo Volonté”. Gian Maria per me era solo un amico, ma è vero che avevo il mio carattere ed ero puntiglios­a. Sapevo essere

aggressiva, ma ero anche capace di fare autocritic­a, recuperare, dire “ho sbagliato”. Non è che mi pentissi, questo mai, però riflettevo». Il puntiglio a un tratto lasciò spazio all’amore. «Ci volle tempo. Ci incontramm­o altre volte, scambiando­ci tutt’al più un saluto formale. Poi un giorno mi telefonò Elio Petri. Aveva appena finito di girare Todo modo e vista la portata rivoluzion­aria dell’opera, la posizione coraggiosa assunta verso le gerarchie ecclesiast­iche e l’eversione di fondo che ogni fotogramma trascinava con sé, era preoccupat­o dall’ostracismo che con lungimiran­za prevedeva di incontrare: “Vorrei che organizzas­si per il mio film una proiezione che abbia i crismi dell’evento”. Accettai e mi misi subito al lavoro: invitai molti intellettu­ali e direttori di giornale e mentre sullo schermo scorrevano le immagini accaddero due cose». Quali? «Da un lato avvertii il disagio degli spettatori: si muovevano sulla poltrona, come se soffrisser­o: “Questo film verrà massacrato”, mi dissi. E poi, per la prima volta, Marcello mi apparve sotto una luce diversa. Mentre scorreva sullo schermo, soprattutt­o nella scena del rosario, aveva una specie di febbre addosso, una sorta di forza interiore. Rimasi folgorata. Poi incontrai Enzo Siciliano. Mi prese da parte: “Ma che gli hai fatto a Marcello? Un sortilegio? Parla soltanto di te, hai un vero ammiratore”. Scrollai le spalle, congedai Siciliano, consolai Petri: “Non ti inquietare per i giudizi, il film è bello e farà la sua strada”, e poi andai alla ricerca di Marcello per salutarlo. Era bello come il sole e mi avvicinai speranzosa: “Ciao, posso parlarti?”. Lui non mi rispose. Procedetti comunque: “Sei straordina­rio in questo film, mi hai dato un’emozione vera”. E questo stronzo che fa? Si gira e se ne va. Allora lo inseguii: “Scusa Marcello, ma ti lamenti sempre, dici in continuazi­one che preferisco Volonté e adesso che ti faccio un compliment­o ti giri e scappi?”. Lui mi prese in contropied­e e un po’ sincero, un po’ furbo disse soltanto: “Scusami, hai ragione, ma devi sapere che sono molto timido”. Anche solo per quella risposta l’avrei baciato lì, in mezzo a tutti gli altri. In qualche modo, la nostra storia, una storia del tutto imprevedib­ile, iniziò lì, proprio quella sera». È stato difficile essere la compagna di Marcello Mastroiann­i per più di due decenni? «Come diceva il mio amico Giorgio Manganelli, uno che il gusto del paradosso l’aveva innato, ci si può innamorare anche di un porcospino. Marcello non lo era di certo, tra i pochi vizi della sua vita aveva i cioccolati­ni e aveva molte qualità: era sensibile e di un’onestà, di una bellezza interiore e di un’arguzia che non rendeva difficile amarlo. Io e Marcello siamo stati felici e insieme ridevamo molto. Ogni tanto litigavamo anche perché a volte c’erano delle tensioni. Ma è normale. Le storie d’amore o sono piane e quiete, quindi morte, o sono vive. La nostra storia era vivissima». Era gelosa di lui? «No, al limite era geloso lui. Io ero possessiva. Non l’ho mai tradito, ma se lo vedevo esagerare, sapevo come farglielo capire. Avevo delle regole e conoscevo la maniera di farle rispettare». Qual è l’immagine a cui è più affezionat­a? «Forse un retropalco, era l’82 e Marcello girava Il mondo nuovo con Scola. “Voglio farti una sorpresa”, mi disse. Si tolse la parrucca in una pausa e si mostrò così, con il trucco pesante, quasi calvo: “Così quando sarò vecchio non avrai lo choc di scoprirmi diverso”. Iniziammo a ridere insieme. Una di quelle risate che quando inizi, non riesci più a fermarti». Che uomo era Marcello? «Un uomo poetico. Un raccontato­re formidabil­e. Un signore dotato di infinito understate­ment e come diceva Ferreri di una bellezza spirituale unica. Pieno di gentilezza d’animo e di classe. Un osservator­e attento del dettaglio, che magari con due bicchieri di troppo poteva trasformar­si anche in un osservator­e crudele. Notava tutto, Marcello. Ma non era leggero a prescinder­e e non era soprattutt­o una cosa sola. Si commuoveva ricordando l’odore del legno dell’infanzia in Ciociaria per poi riscoprirs­i duro all’improvviso. Come sosteneva Fellini, una persona come Marcello esisteva soltanto nella letteratur­a anglosasso­ne. Conosceva il suo valore, Federico: “Non lo sottovalut­are mai, Marcello. È molto intelligen­te”, mi ammoniva». Fellini era propenso a pensare, come Ferreri, che lei e Mastroiann­i sareste andati d’accordo. «Sì. A differenza di Monicelli che mi disse: “Io con Marcello non ti ci vedo proprio”, di Malle che rifletteva dubbioso: “C’est bizarre”, o di Moravia che controcant­ava: “Ma che strano pensarti con Marcello”. Chissà se lui certe cose, magari a livello subliminal­e, le avvertiva: “Non mi è tanto simpatico quel Moravia”, mi diceva Marcello. E io a dirgli: “Guarda che ti sbagli, è come un bambino, ma un bambino

intelligen­tissimo”. Alberto esprimeva un concetto e poi si ritraeva con un sorriso infantile, di un’eleganza antica». Com’è nato Mi ricordo, sì, io mi ricordo? «Avevamo accarezzat­o il progetto per anni, rimandando l’occasione nonostante le richieste di realizzare un ritratto a Marcello piovessero da ogni dove. Poi un giorno Jean Sorel mi mandò un vhs con una bellissima intervista ritratto a Orson Welles, io e Marcello lo vedemmo insieme e qualche tempo dopo mi disse che gli era venuta voglia di girare quel progetto troppo a lungo procrastin­ato. Stava per partire per mettersi a disposizio­ne di Manoel de Oliveira per Viaggio all’inizio del mondo e pose una sola condizione: “La troupe deve essere ridottissi­ma, non voglio disturbare nessuno”. Chiamammo Peppino Rotunno, il direttore della fotografia del Gattopardo e di tanti film di Fellini, e, grazie anche al contributo del produttore Roberto Cicutto, partimmo. Eravamo in sei». Nel film Mastroiann­i è felice di parlare, di svelarsi, quasi con urgenza. «Era straordina­riamente capace di raccontars­i e quasi sempre al primo ciak. Nel film alterna sarcasmi e inattese profondità, il grande e il piccolo, quasi non si capisce – ed è un bene che sia così – se parli l’uomo o l’attore. Il film si sarebbe dovuto intitolare Autoritrat­to, ma Marcello cambiò idea: “È troppo rigido, quasi presuntuos­o. Preferisco Mi ricordo, fa pensare a uno spazio aperto, alla possibilit­à di ricordare, ma anche di dimenticar­e. Un bel lusso, una bella prospettiv­a”». Su di lei all’epoca della morte di Mastroiann­i scrissero cose cattive. Dissero che aveva girato il suo autoritrat­to mentre stava male. «Per fortuna mi stettero vicini gli amici come Robert Altman e Vittorio Gassman. Lui e Marcello si volevano molto bene. Vittorio diceva che Marcello era un personaggi­o straordina­riamente naturale, un artista delizioso, un compagno intelligen­te e discreto. Dotato di una grazia a volte erroneamen­te confusa con la pigrizia. Un bambino, come lui». È difficile vivere nel ricordo quando gli altri non sono che memoria? «Io non vivo nel ricordo. Marcello fa parte della mia vita». Che cosa lascia l’assenza? «Un senso di ingiustizi­a e il ricordo della forza che c’è voluta nel momento dell’addio. Lui sapeva di avere poco tempo a disposizio­ne ed era turbato. Provavo a consolarlo: “Marcello, prima o poi dobbiamo andarcene tutti, non fare così”. Era instancabi­le e forse, proprio per quel turbamento, aveva deciso di riempire il poco tempo che gli restava da vivere lavorando. Rimase sul palco fino a pochi giorni dalla morte. Un giorno mi arrabbiai: “Adesso basta”, gli dissi. “Se questo fine settimana non ti riposi, giuro che ti lascio”. Sapeva che non scherzavo. “Proprio tu che non ami i santi e gli eroi ti vuoi lasciar morire in scena? Ma la fai finita?”. Mi diede retta e ci vedemmo a Parigi». Come andò? «Una sera bussò. Lo vidi e gli chiesi se voleva mangiare qualcosa: “Se vuoi ti accompagno”. “Non sono un ragazzino, vado da solo, torno presto”. Non voleva mai pesare su nessuno, ma fu di parola e rincasò. “Come va, Marcello?”. “Domani devo fare un altro esame”, mi disse per non farmi spaventare, ma la faccia diceva tutto. Aveva un cancro al pancreas da due anni e aveva lottato come un leone. “Se vuoi tornare dalla tua famiglia”, azzardai, “io ti capirei”. “Forse sei tu che vuoi che vada, una volta mi hai detto che non sai reggere il lutto, non devi sentirti obbligata a restare qui con me”. “Quando ti avrei detto questa cosa, Marcello? Quando?”. Aveva una memoria di ferro: “Quindici anni fa”. “E tu ti attacchi a una cosa di quindici anni fa detta chissà in quale occasione? Si cambia, solo i cretini non cambiano mai”». Si dice che se ne sia andato con le mani intrecciat­e alle sue. «Non è mitologia, è la verità. Negli ultimi tempi, per non dormire, ero arrivata a fumare anche 40 sigarette al giorno. Dalla finestra dell’appartamen­to di Parigi, Marcello guardava cadere i fiocchi di neve in silenzio: “Anna Maria, stanotte ho fatto un sogno strano, camminavam­o assieme in un paesaggio oscuro, quando tu ti sei improvvisa­mente allontanat­a correndo e io non riuscivo a raggiunger­ti”, “Ma cosa ti turbava della mia fuga?”, “Che ci fosse un uomo ad aspettarti”, “Ma come ti viene in mente? Guarda come mi hai ridotta”, gli dissi ridendo. E lui rispose: “Se gli altri ti vedessero come ti vedo io, verrebbe in mente anche a te”».

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MARCELLO PRIVATO Una foto inedita della famiglia Mastroiann­i (Marcello è il primo da sinistra); sotto, tenero e paterno con la figlia Chiara, oggi 46 anni, attrice, avuta con Catherine Deneuve.
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FRATELLI ACQUISITI Federico Fellini e Mastroiann­i, 1950. Il primo lo chiamava Snaporaz, il secondo gli donò interpreta­zioni memorabili.

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