ADDIO ALLA RABBIA
L’esordio esplosivo negli anni ’90, la fama mondiale, le canzoni-vendetta. Oggi ALANIS MORISSETTE è una quarantenne sposata e con figli, che ha trovato la serenità. Alla vigilia del suo grande ritorno, ci racconta com’è guarita dalla dipendenza dall’amore
Aun certo punto della telefonata, passiamo in rassegna le sue canzoni più famose. Per esempio, You Oughta Know: «L’ho scritta in 20 minuti, una canzone molto “fisica” ed esplicita. Non ho mai detto di chi parlava perché non mi sembra corretto: è giusto cantare di risentimento, ma non sono una grande fan della vendetta». Per chi è cresciuto negli anni Novanta, questa è la canzone-manifesto della rabbia della ragazza che è stata lasciata. È quella in cui Alanis Morissette riversava tutto il suo rancore per il ragazzo che l’aveva mollata («pensi a me quando ti scopi lei?») e cadeva nell’inevitabile paragone con l’altra («è perversa come me?»), il tutto cantando di sesso senza mai censurarsi. Uno dei pezzi a cui è più affezionata è Thank You («mi rimette in pace con me stessa, è come una meditazione»), quello in cui elencava le cose di cui era grata (l’India, la fragilità, il silenzio), e che tutti ricordano per via del videoclip in cui lei cantava completamente nuda. Potremmo andare avanti così per ore, perché per scrivere la biografia di Alanis Morissette basterebbe mettere in fila le sue canzoni. Uno dopo l’altro, dal leggendario Jagged Little Pill del 1995 (che oggi è diventato un musical) a Havoc and Bright Lights del 2012, i suoi album hanno raccontato fase per fase la sua vita, con una precisione e una sincerità spiazzanti, dalla ventenne arrabbiata e in costante lutto sentimentale alla quarantenne rappacificata di oggi, sposata con il rapper Mario «Souleye» Treadway e madre di due figli. L’ultimo capitolo di questo racconto uscirà entro l’autunno, dopo sei anni di silenzio discografico, ma intanto ci saranno tre concerti in Italia a luglio. «Ogni mio lavoro è una fotografia di un periodo. Il nuovo, scritto tutto al piano, parla di relazioni, di depressione, di guarigione, dell’essere donna. Facciamo prima a dire di cosa non parla!». Che cosa c’è nella fotografia di oggi? «Mio marito, il mio matrimonio, i miei figli. C’è la ricerca di ridefinire la spiritualità. C’è un mondo che ha ancora paura della femminilità. E io probabilmente nella foto sono a testa in giù!». Perché? «Perché mi piace guardare alle cose da diverse angolazioni». In Jagged Little Pill guardava alle donne da un punto di vista diverso, nuovo. La voce di una generazione, si diceva: è d’accordo? «Era di sicuro il mio sguardo, la mia percezione. Mentre scrivevo le canzoni di quell’album ricordo che ero insoddisfatta: non volevo fingere. Così ho continuato a fare e a disfare finché non sono riuscita ad arrivare a un disco che fosse completamente autentico, che rispecchiasse davvero chi ero. E una volta trovata la mia voce, non ho più cambiato niente: questo è il modo in cui scrivo canzoni da 25 anni. Una specie di diario». Scrivere la aiuta a stare meglio? «Assolutamente sì. Infatti quando non scrivo non sto benissimo, è come se mi tenessi dentro troppe cose». È sempre molto sincera nelle canzoni, non ha mai paura di svelare troppo di sé? «Quando scrivo, la canzone è una cosa solo mia. Ma amo condividerla con gli altri, è il momento in cui il mio lavoro diventa un servizio: ti offro la mia storia e tu puoi confrontarti, ritrovarti, farla tua. È quello che fanno gli artisti». Ha condiviso anche la violenza sessuale di cui è stata vittima in Hands Clean. «Sì, parlava di uno stupro che ho subito da adolescente. A guardare indietro, molte canzoni che ho scritto erano un tentativo di capire quello che mi era successo e di guarire quella ferita. Negli anni poi ho fatto tanta psicoterapia per tornare ad appropriarmi di una sessualità sana, è stato un percorso lungo e difficile. E oggi, con il movimento del #MeToo sono felicissima di come stanno cambiando le cose. Quando ai concerti canto Hands Clean sento che c’è un ascolto diverso, più attento». Non ha mai pensato di fare il nome dell’uomo che la violentò? «Non ho desideri di vendetta, solo di guarigione. Mi esprimo attraverso le canzoni, insegno, sto scrivendo un libro sulla mia vita. Faccio le cose a modo mio, come ho sempre fatto e sempre farò». Prima parlava di sessualità sana: lei ha raccontato di essere stata dipendente dal sesso e anche dall’amore. «In realtà, come tutti gli ex tossici, non si finisce mai di guarire. Non è un’assuefazione molto diversa da quella per le droghe o l’alcol: si mettono in moto processi chimici nel nostro organismo. Nella dipendenza dall’amore c’è uno che è dipendente e l’altro che è “evitante”. Ci si mette in questa condizione per cercare di stare meglio, ma alla base c’è il desiderio di evitare alcuni sentimenti. La maggior parte delle mie canzoni parla di persone che ne soffrono. Uscirne è stato difficilissimo». Ma come ha capito che si trattava di dipendenza e non di semplice sofferenza sentimentale? «Per via di tante relazioni che finivano e che seguivano tutte lo stesso schema, che era parecchio doloroso. Ovviamente c’è sempre una dose di sofferenza dopo la fine di una storia d’amore, ma ciò che provavo io andava al di là del lutto sentimentale, era qualcosa di molto più profondo. Così ho cominciato a fare delle ricerche e mi sono imbattuta in questa donna fantastica, Pia
Mellody, che sul tema ha scritto un libro (Facing Love Addiction, ndr). Con lei e attraverso il lavoro su me stessa sono riuscita a uscire da quelle dinamiche negative». E ha incontrato suo marito Mario. «A lui ho raccontato tutto di me, ci aiutiamo a vicenda. Se hai subito un trauma e puoi partecipare al vissuto dell’altro, cominci a guarire. Tanti pensano che sia l’infatuazione a tenere insieme le persone, ma nel nostro caso è l’impegno a fare insieme un percorso di guarigione e condividere la stessa scala di valori. È un gran lavoro ma è appassionante e alla base si crea un’amicizia vera». Come educate i vostri figli? «La parola chiave è connessione. Qualsiasi cosa faccia come mamma, ma anche come moglie, artista, amica, attivista, tende al contatto con Dio, con gli altri e con me stessa. I nostri bambini sono istruiti a casa, allatto ancora al seno Onyx che ha due anni (Morissette e Souleye hanno anche un altro figlio, Ever, 7 anni, ndr), viaggiamo tanto tutti insieme. Siamo come una piccola comunità. Quando io e mio marito insegniamo qualcosa a loro, nello stesso tempo siamo noi a imparare». Ha dichiarato di aver sofferto di depressione post-parto. È ancora un tabù? «Sì, tante la vivono e poche ne parlano, c’è ancora molta strada da fare. Io ne ho sofferto dopo entrambi i parti, nel mio caso questa sofferenza si sommava al fatto che stavo invecchiando. Ho deciso di parlarne perché vorrei che le donne che vivono questa condizione sapessero che non sono sole. Per me la soluzione è stato un approccio multiplo: esercizio fisico e psicoterapia. Anche questo è un percorso di guarigione, di ricerca dell’equilibrio». Lei sembra averlo trovato. Nella sua vita e nelle sue canzoni non c’è più la rabbia che animava i primi dischi? «C’è ancora, come qualsiasi altro sentimento. Ma nella vita sono diventata meno reattiva, il che forse rende le canzoni più fredde. Oggi rabbia, paura, felicità si presentano in modo diverso rispetto a un tempo. E per fortuna: ho 44 anni, oggi mi vergognerei a reagire come una ventenne». A vent’anni diventò una star mondiale. Che ricordi ha di quel periodo? «Ricordi intensi. Sono sempre stata un’ottima osservatrice e da un momento all’altro sono passata dall’essere quella che stava in un angolo a scrutare gli altri e a perdersi nel suo mondo interiore a quella che tutti guardavano. Pensavo che la fama sarebbe stata come un abbraccio, che significasse conoscere tanta gente, diventare amica di altre persone famose, essere sostenuta. Ma di fatto mi ritrovai molto isolata, molto sola. Oggi è tutto più facile per me, riesco a gestire la fama, ma se potessi dare un consiglio alla me stessa ventenne le direi di investire di più nell’amicizia: sei sempre un essere umano anche se gli altri ti trattano in modo diverso».