Vanity Fair (Italy)

Dov’è mio figlio?

- di JONATHAN BLITZER foto JOHN MOORE

Una bambina disperata che Trump guarda corrucciat­o. Alcuni piccoli nascosti fra le pieghe della Statua della Libertà. Così Time e il New Yorker affrontano in copertina il dramma della separazion­e forzata dei figli dai genitori che tentano di entrare illegalmen­te negli Stati Uniti. Sono 2.342 i minori, i cui papà e mamme sono stati arrestati fra il 5 maggio e il 9 giugno. Tutto era iniziato in aprile, quando il ministro della Giustizia Jeff Sessions aveva annunciato che le persone fermate al confine messicano non sarebbero più state giudicate dai tribunali per l’immigrazio­ne ma dalle corti federali. Il che comporta che gli adulti siano automatica­mente processati (in precedenza non succedeva) e reclusi. A questo punto i minori, che secondo una sentenza del 1997 devono usufruire di strutture adatte, vengono riuniti in appositi centri, lontani dai genitori, in custodia all’Office of Refugee Resettleme­nt (Orr). Centri in cui i bambini passano in media 57 giorni, spesso sedati, costretti dietro le sbarre, impossibil­itati a comunicare. Adesso, dopo una mobilitazi­one generale (da Bruce Springstee­n al Papa, compresa Melania, la first lady «immigrata»), Donald Trump si è arreso e il 20 giugno ha firmato un ordine esecutivo per porre fine alla situazione. Ma finisce davvero tutto qui? Riuniti genitori e figli, che cosa sarà di loro? Si ritroveran­no tutti insieme in galera?

5maggio. È da poco passata la mezzanotte, una donna honduregna di nome Ana Rivera e suo figlio di cinque anni, Jairo, cercano di attraversa­re il confine tra Stati Uniti e Messico. Ma mentre superano una recinzione a El Paso vengono catturati e trascorron­o così la notte in cella, in una stazione di polizia di frontiera degli Stati Uniti. Con loro, altre madri e altri bambini, circa 25 persone. Nel pomeriggio del secondo giorno di detenzione due agenti uomini entrano in cella. «Non hanno detto niente», ricorda Rivera. «Si sono avvicinati e hanno afferrato Jairo, lui si è aggrappato a me, piangeva e gridava. Loro l’hanno trascinato via con la forza». Ana ha supplicato gli agenti di spiegarle che cosa stava accadendo, mentre le altre donne imprigiona­te non riuscivano a dire una parola, sotto shock

per quello che avevano visto. Nelle ore seguenti, gli agenti hanno iniziato a prelevare tutti gli altri bambini. Alle madri dicevano che sarebbero state riunite ai figli dopo qualche giorno di prigione. Quasi sei settimane più tardi, Ana non ha ancora rivisto Jairo. Dopo che il bambino era stato preso dagli agenti di frontiera, lei aveva firmato un ordine di partenza volontaria, accelerand­o il processo di espulsione. Si sentiva confusa, e credeva di riuscire così a ricongiung­ersi prima con suo figlio. Non è andata come sperava. Rivera è stata accusata di ingresso illegale nel Paese, restando per alcuni giorni in custodia nel New Mexico, per poi essere spedita in un Immigratio­n and Customs Enforcemen­t (Ice) in Texas. Pochi giorni fa, le ho fatto visita in una stanzetta non ammobiliat­a con pareti di cemento bianco al centro Ice di El Paso, dove aspettava di essere espulsa. Rivera, 37 anni, indossava una tuta arancione e scarpe da ginnastica senza lacci. Appariva stordita. Il giorno prima che suo figlio venisse rapito aveva fatto una visita medica obbligator­ia e le avevano comunicato che era al secondo mese di gravidanza. Per gentile concession­e dell’Ice, aveva diritto a una dose giornalier­a di pillole vitaminich­e. «Non mi interessa se mi mandano via», mi ha detto. «Soffro per mio figlio. Ho bisogno di stare con lui». Durante i primi dodici giorni trascorsi in custodia federale, Ana non aveva la più pallida idea di dove fosse Jairo. Non toccava cibo e a malapena riusciva a dormire. Piangeva senza sosta. «Lo stress era troppo da sopportare», mi ha detto. Nessuno le dava notizie di suo figlio, e non aveva un avvocato che la potesse sostenere. Quando era arrivata all’Ice, il 18 maggio, era talmente sconvolta che faticava a parlare.

L’amministra­zione Trump separa genitori e figli alla frontiera senza alcun piano o regolament­o che permetta di seguirne le tracce mentre sono separati. La politica a tolleranza zero prevede che i genitori vengano perseguiti penalmente per il loro ingresso illegale negli Stati Uniti e spediti all’Ice per la detenzione e poi l’espulsione, mentre i figli – trattati come se fossero arrivati nel Paese da soli – passano sotto la custodia dell’Ufficio del reinsediam­ento dei rifugiati (Orr). «Una volta che madre e figlio vengono separati, viaggiano su due strade legali divise», ha riferito al Times John Sandweg, direttore dell’Ice sotto la presidenza di Barack Obama. Solo il mese scorso il governo ha separato oltre 2.300 bambini dai genitori, i quali hanno dovuto ritrovarli contando solo sulle proprie forze. Pochi giorni dopo il trasferime­nto di Rivera nella struttura Ice di El Paso, un’altra detenuta – una donna del Guatemala – le si è avvicinata: «Ha visto che stavo piangendo e mi ha detto: “Ecco, salva questo numero di telefono e prova a metterti in contatto”». La donna era stata separata dal suo bimbo di un anno e mezzo ed era riuscita a ritrovarlo aiutata da una case manager dell’Orr di Chicago. Ana non aveva abbastanza soldi sulla sua carta per fare la telefonata, ma la donna guatemalte­ca le aveva prestato la sua. «Ho chiamato e ho chiesto se mio figlio era lì. La persona che mi ha risposto ha detto: “Grazie a Dio sei tu. Jairo è qui con me. Ero sulle tracce di sua madre”». Rivera ha così cominciato a parlare con Jairo due volte a settimana, un quarto d’ora ogni volta. Mentre mi racconta, il suo viso si allunga e scoppia in un pianto a dirotto. «Non è più lo stesso bambino di prima: era attivo e vispo, ora è sempre malinconic­o». Ana ha dato il numero della case manager dell’Orr a sua madre e a suo figlio maggiore, entrambi residenti in Honduras. Telefonano a Jairo ogni settimana: «In questo modo non si sente solo». Però ha sempre più paura di poter essere espulsa senza di lui.

Due settimane fa, ha deciso – assieme ad altre nove donne che a El Paso erano state separate dai figli – di contattare Linda Rivas, avvocato specializz­ato in immigrazio­ne locale e direttore esecutivo del Centro per l’Immigrazio­ne Las Americas. Rivas era andata all’Ice per incontrare un altro cliente, una donna del Guatemala richiedent­e asilo, anche lei separata a forza da sua figlia, così Rivera e le altre sono riuscite a farle avere sotto banco i propri dati. «Alcune di queste donne sanno dove si trovano i loro figli, altre non ne hanno la più pallida idea», mi ha detto l’avvocato. «Ciascuna ha un proprio modo di gestire la sofferenza. Ana è particolar­mente traumatizz­ata. È incinta e detenuta. Senza il suo bambino si sente sconsolata». Dato che Rivera aveva già accettato – firmando – la partenza volontaria, c’era ben poco che Rivas potesse fare per aiutarla legalmente. Non si è data comunque per vinta e ha deciso di fare pressione sul responsabi­le dell’Ice, per impedirgli di mandarla via fino a quando non si fosse ricongiunt­a al figlio. «Non esiste però una strategia unica su come intervenir­e», spiega l’avvocato. «Dipende da che persona è l’ufficiale responsabi­le dell’espulsione e da quanto è disposto a coordinars­i con un operatore dell’Orr». Per fortuna, l’ufficiale di Ana sembra disponibil­e (ma non mi hanno permesso di parlare con lui). Stando a Rivera, Jairo ha lasciato Chicago da pochi giorni e ora si trova in una struttura Orr vicino a El Paso. Mi ha mostrato con emozione il numero di telefono del suo nuovo case manager: il prefisso era quello di El Paso. Sapere che il figlio non è distante le toglie un peso dal cuore, nonostante non possa vederlo. Ma ogni telefonata risulta difficile e «non so nulla di lui, solo quello che mi viene riferito. Mio figlio mi dice: “Mamma, vieni da me, portami a casa. Non mi piace stare qua”». Ana mi ripete quanto il suo ufficiale di espulsione le ha detto: «Sii paziente». Quando la lascio, nel tardo pomeriggio, lei sembra oscillare tra attesa e disperazio­ne. I suoi occhi avevano avuto un guizzo mentre parlava. «Perché non possono sempliceme­nte mettermi su un aereo assieme a mio figlio? È la sola cosa che desidero: che ci mandino a casa insieme. Voglio uscire da qui in fretta». E poi ha aggiunto: «Ma gli ho detto: “Se mi portate all’aeroporto e mio figlio non c’è, sarà come uccidermi”». La sera, però, ricevo un messaggio da Rivas: l’ufficiale di espulsione sta cercando di prendere accordi perché madre e figlio se ne tornino a casa insieme. «Sono buone notizie», mi dice. «E ne sono contenta. Ma fino a quando Ana e suo figlio non saranno su quell’aereo, non possiamo essere sicuri che accadrà per davvero». [traduzione di Marzia Nicolini]

«Parlo al telefono con mio figlio. Non è più lo stesso di prima: era vispo, ora è sempre malinconic­o»

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